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La mafia, intesa come “organizzazione criminale suddivisa in più associazioni (cosche o famiglie), retta dalla legge dell’omertà e della segretezza, che esercita il controllo di attività economiche illecite e del sottogoverno”, non uccide solo d’estate, non uccide solo gli uomini e non uccide solo in Sicilia. La mafia – così come la camorra, la sacra corona unita, la ndrangheta – uccide i personaggi che le risultano scomodi nella società civile, nella politica, nel giornalismo, nel sindacato.
Persone come Antonio Esposito Ferraioli, cuoco della mensa della Fatme di Pagani e delegato Cgil, ucciso con un colpo di lupara alla schiena il 30 agosto 1978 per le sue indagini sull’uso di carne di provenienza sospetta all’interno della mensa, probabilmente frutto di una truffa ai danni della Comunità europea messa in atto dalla camorra e da alcuni amministratori del comune salernitano. Il caso scuoterà le coscienze della cittadina campana e non solo. Antonio è una vittima evidentemente e specchiatamente innocente. Di buona famiglia e lavoratore onesto, era iscritto al Pci e delegato in fabbrica.
Sulla vicenda non si aprirà mai una fase processuale, con le indagini a carico dei presunti mandanti che si areneranno più volte per insufficienza di prove. “Ieri è stato barbaramente ucciso Esposito Ferraioli Antonio", recitava il manifesto funebre stampato dal Comitato di zona Agro Nocerino-Sarnese del Pci: "Un compagno operaio dell’appalto mensa Fatme. Questo infame delitto giunge al culmine di una serie di minacce e intimidazioni contro i lavoratori. I comunisti, nell’esprimere la loro commossa solidarietà ai familiari della vittima, chiedono che le autorità preposte facciano piena luce sul delitto e assicurino alla giustizia gli esecutori e i mandanti”.
Nell’anno della morte di Ferraioli – e di Peppino Impastato in Sicilia – si consuma anche l’omicidio di Pasquale Cappuccio e, dopo due anni, quello di Mimmo Beneventano, entrambi consiglieri comunali delle sinistre nella città di Ottaviano, cuore del potere della nuova camorra organizzata di Raffaele Cutolo nella provincia di Napoli. In quel 1980 Tammaro Cirillo è un operaio iscritto alla Cgil, comunista, lavoratore in un cantiere di Villa Literno della Sled, azienda incaricata di costruire una cinquantina di vasche di depurazione (alte venti–trenta metri) e scavo di canali larghi, profondi e lunghissimi. Tammaro verrà ucciso per il suo impegno in favore dei lavoratori. Sarà freddato in casa sua agli inizi di luglio.
“Una rosa di pallettoni nella coscia sinistra, un agguato crudele e spietato – scriveva l’Unità il 4 luglio – Tammaro Cirillo, eletto poche ore prima delegato sindacale di un cantiere edile di Villa Literno, è nel reparto rianimazione del Cardarelli di Napoli. Il piombo, sparato quasi a bruciapelo con un fucile da caccia, gli ha strappato l’arteria femorale. (…) Con Tammaro Cirillo c’era, in quel momento solo la figlia quindicenne: era girata verso il televisore – ha raccontato agli inquirenti – e si è accorta di quanto accadeva solo quando ha udito l’esplosione. Ha visto con la coda degli occhi un uomo, che fuggiva. Villa Literno ha risposto subito con lo sciopero e una manifestazione di massa. L’ipotesi di una intimidazione mafiosa è la più probabile e il sindacato ha deciso di reagire subito in modo chiaro e fermo”. Poche ore prima dell’agguato, Tammaro era stato eletto delegato sindacale nel cantiere Sled di Villa Literno, un centro a poca distanza da Aversa. Un cantiere difficile in una zona ancora più difficile.
Come difficile era – e purtroppo rimane – il territorio di Casal di Principe. Qui il 18 febbraio del 2002 viene freddato Federico Del Prete, presidente del Sindacato nazionale autonomo ambulanti, ucciso per aver denunciato il racket imposto dalla camorra sui mercatini delle province di Napoli e Caserta. Aveva raccontato alla squadra mobile casertana che a Mondragone i commercianti pagavano il pizzo al clan La Torre e che a ritirare i soldi era un vigile urbano. Aveva raccolto prove e testimonianze contro il vigile e lo aveva fatto arrestare in flagranza di reato. Pagherà il suo coraggio con la vita, ucciso il giorno prima della sua testimonianza al processo. “Mio padre – dirà il figlio Gennaro – sapeva con perfetta coscienza che la camorra lo avrebbe un giorno ucciso, non poteva ignorare e non ignorava l’estremo pericolo che correva. Eppure non è fuggito”.
Cosa fa un sindacalista?, ci sentiamo spesso chiedere. Un sindacalista fa il suo lavoro, anche quando non è facile. Un sindacalista ascolta, comprende, guida, indirizza, consiglia, e quando può, interviene. Un sindacalista combatte e lotta, anche a costo – e le tante biografie che continuiamo a raccontare lo testimoniano – della vita. Anche a costo, ce lo ha insegnato Giuseppe Di Vittorio, di enormi sacrifici: “Quando si ha la piena consapevolezza di servire una grande causa, una causa giusta, ognuno può dire alla propria donna, ai propri figliuoli, affermare di fronte alla società, di avere compiuto il proprio dovere”.