“Il Piano nazionale di ripresa e resilienza può essere un piano ambizioso e straordinario, un’occasione unica e irripetibile per il nostro Paese. Ci sono cose utili e importanti, come l’attenzione a giovani e donne e la previsione di nuovi ammortizzatori sociali per un mondo del lavoro cambiato, però affonda le sue radici in una visione a mio parere distorta. E poi gli manca una parte fondamentale”. Non riesce a nascondere le sue perplessità il segretario generale del Nidil Cgil Andrea Borghesi, a capo del sindacato che tutela i lavoratori e le lavoratrici precari e atipici. Perché, sebbene il Pnrr rappresenti a detta di molti un vero trampolino di lancio per l’Italia, per la nostra economia e la nostra società, per affrontare e superare questa crisi pandemica avrebbe dovuto prendere le mosse da un presupposto diverso.

Quale?

Il Piano indica il mercato come il principale regolatore dell’economia e relega lo Stato a un ruolo di facilitatore nella realizzazione e nell’attuazione delle politiche. La questione principale è questa ed emerge prepotentemente nella filosofia che permea tutto il Pnrr, anche nelle riforme annunciate, negli incentivi alle imprese, in alcune scelte generali. Questo è invece il momento in cui lo Stato dovrebbe avere un ruolo più attivo, come è già accaduto in passato in altre situazioni e come succede tuttora in alcuni Paesi anche europei, come datore di lavoro di ultima istanza: progetti da sperimentare come stanno facendo anche in Austria. Dobbiamo tenere presente che il Piano ha una portata economica e temporale importante, investirà e influenzerà le politiche e i prossimi governi per almeno dieci anni. Quindi la battaglia che facciamo oggi creerà, per quanto possibile, i presupposti per quello che accadrà domani, evidenziare le difficoltà oggi è utile per spostare l’asse fin dove e fino a che è possibile. È su questo che dovremo lavorare già dai prossimi giorni per provare a cambiare rotta su alcune partite.

Borghesi, le sue perplessità nascono anche da altro. Di che cosa si tratta?

Sulle tematiche che ci riguardano direttamente manca una fotografia realistica di quello che è oggi il mercato del lavoro. Non si fa cenno alla precarietà, alla difficoltà oggettiva e concreta a ottenere condizioni giuste da un punto di vista retributivo e normativo, non c’è neppure un riferimento a una semplificazione e a una riduzione delle tipologie contrattuali: da noi ce ne sono decine, là dove negli altri Paesi ne esistono 5. Il punto è che non si prende in considerazione la qualità del lavoro. Mi spiego meglio. Dal 2008 al 2018 abbiamo avuto lo stesso numero di occupati, ma si sono persi circa 2 miliardi di ore di lavoro. Questo significa che la quantità di lavoro svolta dal singolo si è ridotta ed è stata redistribuita attraverso forme atipiche, dal part-time al lavoro discontinuo. Ecco, questo elemento di analisi nel piano non c’è.

Vuol dire che per i lavoratori meno tutelati non cambierà molto?

Spero di sbagliarmi ma per la categoria che rappresentiamo non vedo svolte sostanziali all’orizzonte, e lo dico con grande tristezza. Ci sarà più lavoro, certamente, un aumento della quantità ma non della qualità. Se non si punta sulla qualità, a sostenere la piena e buona occupazione, si rischia di perpetuare la stessa situazione di precarietà che viviamo adesso, con mille forme diverse. La ripresa ci sarà, senza dubbio, ma replicherà le stesse modalità usate finora. Il Piano di investimenti è straordinario, ma non c’è un’adeguata attenzione alla qualità dell’occupazione con cui queste risorse saranno usate. Usciamo dalla pandemia diversi da come siamo entrati, si era detto. Temo invece che non sarà così, soprattutto se non si affronteranno le disuguaglianze che la crisi Covid ha esposto in maniera evidente. Su questo dovremo sfidare il governo e la politica tutta.

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Il Pnrr punta al potenziamento delle politiche attive e al rafforzamento della formazione professionale, con l’obiettivo di governare il processo di transizione. È sufficiente quanto previsto?

La visione che il Piano propone è completamente centrata sul ruolo dell’impresa nell’indirizzo delle politiche del lavoro. Anche quando si parla di politiche formative, la finalità è sempre l’occupabilità, cioè l’ingresso nel mondo del lavoro, e non il miglioramento delle condizioni del lavoratore, una contraddizione rispetto all’idea che ci si debba formare per tutta la vita. Quando lavoro dentro un’impresa sarebbe utile portare avanti un’attività formativa legata alle trasformazioni di quella impresa. C’è un’ottica un po’ troppo legata al concetto che dovremmo affrontare riorganizzazioni e ristrutturazioni aziendali ragionando sull’occupabilità dei singoli, e non formare e migliorare le competenze dei singoli mentre lavorano, in maniera che si adeguino alle transizioni, anche digitali. In questo senso, sarebbe utile fissare i Lef, livelli essenziali di formazione a cui ha diritto il lavoratore, alla stregua dei Lea, i livelli essenziali di assistenza: possono essere usati anche fuori dal lavoro e favoriscono l’occupazione e la riqualificazione durante tutto l’arco della vita.

Un altro punto importante, soprattutto per i giovani, riguarda la casa. Che cosa pensa degli incentivi per l’acquisto?

Nelle misure del Piano c’è il tema del disagio abitativo, ma non una riflessione compiuta sul futuro delle politiche per la casa. Per esempio si incentivano i giovani all’acquisto dell’abitazione, cosa che non è in sé sbagliata, ma una parte dell’investimento dovrebbe essere usata per sostenere i giovani in affitto. In questo modo si aiuterebbero quanti non hanno un punto di partenza forte, coloro che devono spostarsi per lavoro, favorendo così la mobilità territoriale, e chi vuole fare un primo passo per lasciare il nucleo familiare d’origine perché ha trovato una prima occupazione, un modo per sbloccare la mobilità sociale.