Bologna è stata abbandonata da tedeschi e fascisti il 20 aprile 1945, all'alba del giorno successivo le truppe alleate e i gruppi di combattimento partigiani entrano nella città. I bersaglieri del battaglione Goito sfilano percorrendo via Rizzoli mentre la folla, radunata ormai in centro, li acclama.  “Rapidamente le strade si animarono di migliaia e migliaia di cittadini - ricorderà un testimone - che diedero vita a una festa indimenticabile, fantastica. La gente, a un tratto, riprese il gusto di ridere, di urlare, di chiamarsi, di fare dei salti e di baciarsi”.

Il segnale

È una ragazza di diciassette anni, Germana Boldrini, a lanciare il segnale che la sera del 7 novembre 1944 segna l’inizio della battaglia di Porta Lame a Bologna tra partigiani e i nazifascisti.

“In quel momento - racconterà - io mi sganciai dai miei compagni di gruppo ed arrivai a Porta Lame, circa un sei-sette minuti prima; e lì ci fu l'attacco, in piazza della Porta, insomma. Quando arrivai a Porta Lame, con la mia arma automatica e le bombe a mano lanciai il fuoco. I miei compagni mi seguirono e ci fu un grande combattimento. Ci furono delle perdite da parte nostra e delle perdite da parte dei tedeschi”.

A chi le chiedeva da dove le fosse venuto il coraggio di lanciare quel segnale, Germana rispondeva:

Forse perché in casa mia si è sempre vissuti in quella atmosfera, date le circostanze del mio povero babbo che aveva vissuto dodici anni di confino e quando era a casa era molestato quasi tutti i giorni dai fascisti; e ne ha subito di tutti i colori ed io essendo la più grande, si vede che mi son messa nel sangue quel certo spirito di coraggio per difendere mio padre fino alla morte, perché aveva passato una gioventù tanto crudele, tanto brutta, che mi rimpiangeva il cuore solo a sentirlo parlare, tante volte. Mio padre è stato fucilato. Prima hanno minato la casa e poi l’hanno fucilato sulle macerie della casa. Ho pensato che volevo difenderlo, volevo vendicarlo ... Questo è stato tutto quello che ho fatto, poiché io non l'ho visto. L'ho visto due giorni prima di morire, poi non l'ho più visto, neanche sono stata al funerale, niente; ché non gli han fatto un funerale civile, gli han fatto un funerale con un carro da buoi, perché non gli hanno dato il permesso neanche di dargli una carrozza, niente.

Donne resistenti

Nella Resistenza non sono moltissime le combattenti vere e proprie, ma - come Germana Boldrini - non mancano esempi in tal senso.

Secondo alcuni calcoli fatti dall’Anpi furono 35.000 le partigiane combattenti, 20.000 le patriote con funzioni di supporto, 70.000 le donne appartenenti ai Gruppi di difesa per la conquista dei diritti delle donne, 5.000 circa le donne arrestate, torturate e condannate dai tribunali fascisti, circa 3000 le deportate in Germania.

“Il censimento minuto ed esatto della somma dei contributi femminili alla Resistenza - scrive Arrigo Boldrini - è impossibile proprio per il suo carattere di massa: nel corso di quei due anni vi fu la contadina che compiva chilometri a piedi in mezzo ai blocchi nazifascisti per recare i viveri a un gruppo di partigiani; vi fu la casalinga che preparava indumenti da avviare alle bande in montagna; vi fu l’operaia che nascondeva un pezzo della macchina affidatale in fabbrica affinché i tedeschi non avessero interesse a portarla via o la produzione per loro conto venisse interrotta. Moltissime di quelle donne non chiesero mai riconoscimenti e le cronache e la storia ne ignorano persino il nome. Cosicché la pure elevata cifra di 35 mila donne insignite del titolo di partigiane combattenti non rappresenta che il contingente di punta di un grandioso esercito di collaboratrici e sostenitrici della lotta”.

“Con la Resistenza la donna diventa protagonista di un avvenimento storico a fianco degli uomini. Accetta la guerra come individuo che vi partecipa responsabilmente; accetta la guerra con le sue regole di violenza; e la guerra non le risparmierà alcuna violenza”.

Le donne combattono. Le donne muoiono.

“Caro figlio - scrive una di loro, condannata a morte - non posso scriverti tutto quello che sento, ma quando sarai grande e ti immedesimerai nella mia situazione, allora capirai. Non consideratemi diversamente da un soldato che va sul campo di battaglia: sento il volere di Dio e con letizia voglio che esso si compia. Credo che questa sera avverrà. Avrei tanto voluto vedere i tempi nuovi”.

“Mio caro marito - si legge in un’altra lettera - il mio ultimo respiro sia ancora di ringraziamento al destino che mi ha concesso di amarti e di vivere sette anni con te. Avrei tanto voluto vederti ancora una volta, ma poiché non mi sono concessi favori, sono troppo fiera per fare una richiesta inutile”.

“È nella Resistenza - diceva Marisa Rodano alla Camera dei deputati in occasione del 70° anniversario della Liberazione - che le donne italiane, quelle di cui Mussolini aveva detto 'nello stato fascista la donna non deve contare'; alle quali tutti i governi avevano rifiutato il diritto di votare, la possibilità di partecipare alle decisioni da cui dipendeva il loro destino e quello dei loro cari, entrano impetuosamente nella storia e la prendono nelle loro mani. Nel momento in cui tutto è perduto e distrutto - indipendenza, libertà, pace - e la vita, la stessa sussistenza fisica sono in pericolo, ecco le donne uscire dalle loro case, spezzare vincoli secolari, e prendere il loro posto nella battaglia, perché combattere era necessario, era l’unica cosa giusta che si poteva fare”.

Era l’unica cosa giusta che si poteva fare.