Nei giorni scorsi si sono succedute due importanti prese di posizione di autorevoli rappresentanti del governo, per quanto riguarda il tema droghe e consumi di sostanze.

A Vienna si è tenuta la 66esima sessione della Commissione stupefacenti della Nazioni Unite: in quella sede il sottosegretario di Stato Alfredo Mantovano, che ha la delega alle politiche antidroga, ha dichiarato che il nostro Paese si opporrà a qualsiasi ipotesi di legalizzazione, che la droga “è una minaccia per la salute di ogni persona e per la sicurezza delle nostre comunità”, che non esistono droghe leggere, riproponendo una visione delle persone che usano sostanze come devianti e malate.

Il consumo zero è impossibile 

Ha riproposto la logica della tolleranza zero e del consumo zero, nonostante anni di studi e di ricerche abbiano dimostrato l’impossibilità di un mondo senza droghe, e di quanto le politiche proibizioniste abbiano prodotto danni alle persone, in termini di patologizzazione e criminalizzazione, senza peraltro ridurre i consumi, tutt’altro.

Negli stessi giorni, il sottosegretario alla Giustizia Andrea Delmastro ha dichiarato pubblicamente quali sono le azioni che il Ministero intende portare avanti riguardo ai detenuti tossicodipendenti. Queste si sostanziano nell’affidamento degli stessi in comunità chiuse (parole testuali), in strutture private destinate esclusivamente alla loro accoglienza, che abbiano come unico obiettivo la disintossicazione e l’astinenza.

Rischiamo un salto indietro

Le due dichiarazioni assumono un carattere estremamente preoccupante, perché ci riportano indietro di anni, trascurando il grande lavoro, teorico e pratico, che è stato fatto non solo dagli esperti e dagli studiosi, ma anche da tutti quegli operatori che, spesso in condizioni di precarietà, hanno portato avanti servizi e interventi di riduzione del danno nei territori, hanno svolto attività di prossimità, nelle comunità giovanili, nei contesti del divertimento, facendo anche un’importante e fondamentale opera di informazione e prevenzione.

Informazione ed educazione

Sappiamo quanto non sia vero che ogni consumo è destinato alla dipendenza, sappiamo quanto invece siano efficaci interventi di informazione con i giovani e nelle scuole, ma si continuano a preferire interventi e misure che creano stigma e distanza invece che partecipazione e consapevolezza. Le dichiarazioni di Delmastro sono quindi, da un certo punto di vista, ancora più preoccupanti.

In premessa, si richiama direttamente il terzo settore, senza mai citare il fatto che la salute è un diritto previsto dalla Costituzione che deve essere garantito dal servizio pubblico, anche attraverso l’intervento del privato sociale: in molte realtà esistono percorsi virtuosi di collaborazione, e oggi, con gli strumenti della co-progettazione, abbiamo un modo per poter arrivare a una più compiuta integrazione, sempre però in un’ottica di servizio pubblico. Serve, quindi, rafforzare il ruolo dei dipartimenti per le dipendenze, in termini di personale, professionalità e risorse economiche, non privatizzare le risposte ai bisogni di salute dei cittadini.

Il nodo del sovraffollamento

Si sostiene poi che si ridurrebbe così il sovraffollamento nelle carceri. Ora, anche se è vero che oltre il 30 per cento delle persone ristrette lo sono per reati legati alle droghe, se davvero vogliamo risolvere in maniera concreta questo cronico problema dei nostri istituti di pena, sono ben altre le misure che servono, a partire dalla depenalizzazione dei reati minori e dal concreto ricorso alle misure alternative, già previste dalle normative e scarsamente applicate.

Le comunità per educare

Ancora più preoccupante è però la trasformazione che tale provvedimento porterebbe rispetto al ruolo, ai compiti e all’organizzazione delle comunità, che non possono trasformarsi (o tornare a essere) in istituzioni totali che, di fatto, riproducono il carcere. Devono invece, come le esperienze di questi anni dimostrano, essere luoghi dove sviluppare percorsi educativi, integrate con il territorio e con tutti i servizi per le dipendenze.

Suscita davvero indignazione una visione etica come quella proposta, per cui se ti comporti bene, non cedi mai, allora potrai scontare la pena in maniera lineare, altrimenti “avrai bruciato la tua possibilità… perché lo Stato non potrà più fidarsi”.

È di alcuni anni fa il motto, che abbiamo condiviso con molte organizzazioni e associazioni come Cnca e Forum droghe, “Educare, non punire”. Pensiamo sia improponibile tornare ai modelli di comunità chiuse che abbiamo già conosciuto, e non lavorare, invece, per percorsi di cura e di presa in carico che siano il frutto di scelte condivise, responsabili, fondati sulle evidenze scientifiche e sulle esperienze concrete che si sono accumulate in questi anni.

Il fallimento della war on drugs

La war on drugs è fallita, ancora più fallimentare è riproporla così. Farebbe bene al sottosegretario, se solo fosse disponibile, parlare con gli operatori dei servizi pubblici e del privato sociale che in questi anni hanno maturato importanti esperienze sul campo, in termini di riduzione del danno, che fa parte dei Lea fin dal 2017, e limitazione dei rischi.

È per ragionare di questo che il 21 marzo si tiene nella sala stampa della Camera dei deputati una conferenza stampa promossa da Cnca, organizzazione che rappresenta la più ampia rete di comunità in Italia, alla quale abbiamo aderito come Cgil insieme a Forum droghe, all’associazione Antigone, alla Rete dei garanti, proprio dal titolo: “Educare non punire – le comunità non sono carceri”.

Denise Amerini è responsabile dipendenze e carcere dell’area stato sociale e diritti della Cgil