Federico Aldrovandi ha diciotto anni quando il 25 settembre del 2005 muore a Ferrara dopo una violenta colluttazione con quattro agenti di polizia. La famiglia viene avvertita verso le 11 del mattino, quando sono ormai trascorse quasi cinque ore dal decesso del ragazzo che presenta sul corpo 54 lesioni ed ecchimosi.

Nel 2009 quattro poliziotti - Paolo Forlani, Monica Segatto, Enzo Pontani e Luca Pollastri - vengono condannati a tre anni e mezzo di carcere per “eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi” (in un secondo processo, l’Aldrovandi bis, il 5 marzo 2010 tre poliziotti - Paolo Marino, Marcello Bulgarelli, Marco Pirani - saranno condannati per presunti depistaggi nelle indagini).

Grazie alla legge sull’indulto dopo sei mesi i quattro imputati saranno nuovamente liberi tornando in servizio un anno dopo.

Federico era tifoso della squadra di calcio cittadina, la Spal, amava la musica e i concerti. Suonava il clarinetto e, fin da quando aveva 11 anni, prendeva lezioni di karate. Aveva 18 anni ed era in attesa di sostenere l’esame per la patente. Aveva una vita davanti. E invece è morto mentre era nelle mani dello Stato.

Come Serena Mollicone prima di lui, come Stefano Cucchi dopo di lui, come in tante e in tanti, in troppe e in troppi. Non mi uccise la morte, ma due guardie bigotte, Mi cercarono l'anima a forza di botte.

“Noi eravamo presenti al momento della pronuncia della sentenza della Corte di Cassazione - scriveva Ilaria Cucchi a mamma Patrizia - Lucia Uva, Domenica Ferrulli ed io. Perché noi in questi anni siamo diventati una famiglia. Noi sappiamo cosa significa lottare momento dopo momento per una giustizia che si dà per scontata ma che molto spesso non lo è. Noi sappiamo quanto è importante per noi, e per quelli come noi, che finalmente e definitivamente coloro che hanno tolto la vita a un ragazzino che non aveva fatto niente di male siano stati giudicati colpevoli. Questa è la giustizia in cui vogliamo credere. Questo ciò che da a noi la speranza di andare avanti. Questo ciò che è riuscita a fare, da sola, Patrizia Moretti. Per la sua famiglia, per Federico che ora le sorride da lassù ma che mai nessuna sentenza potrà restituirle. Ma anche per l’intera collettività. E per noi, che senza il suo coraggio non avremmo mai trovato la forza necessaria per intraprendere battaglie di simili dimensioni. Patrizia lo ha fatto sapendo bene che quanto aveva di più prezioso non le sarebbe stato restituito da una sentenza di condanna. (…) E lo ha fatto anche nell’illusione di poter cambiare una cultura. Quella terribile per la quale chi indossa una divisa ha ragione a prescindere”.

“Oggi ne avresti 26 di anni - scriveva papà Lino nel 2013 - e chissà quante cose belle o meno belle avremo condiviso insieme. Non crescerò mai Federico, come l’hanno maledettamente impedito a te. Non cresceremo mai, ma altri bimbi forse sì, se gli uomini di buona volontà sapranno prendere spunto e insegnamento da questa orribile storia, in questo nostro paese”.

E noi continueremo a lottare per questo, Lino. Lo dobbiamo a Federico, a Serena, a Stefano, a Giuseppe, ad Aldo e tutte e tutti gli altri. Lo dobbiamo a noi stessi.