“L’inflazione è come una tassa sui consumi, il cittadino è tartassato non da nuove imposte previste dal governo o dal Parlamento, ma dal mercato e dalla produzione. In un’economia sempre più integrata come la nostra, questa situazione è frutto di eventi che accadono anche molto lontano da qui ma che hanno influenza sulla nostra vita”. Leonello Tronti, dirigente di ricerca all’Istat e docente di economia del lavoro alla scuola superiore della Pubblica amministrazione e all’università di Roma Tre, non ha dubbi: quella che stiamo vivendo è una delle tante contraddizioni del capitalismo e del mondo globalizzato.

Ci può spiegare meglio questa contraddizione professore?
Il neoliberismo non è liberismo, cioè non protegge affatto la libertà dei commerci, un mantra che ci hanno ripetuto per decenni. Questo sistema lascia che esistano strutture di carattere oligopolistico o monopolistico che bloccano i mercati quando cresce il bisogno di una determinata merce o prodotto. È quello che sta accadendo con l’energia, il cui prezzo sta aumentando in modo indiscriminato. Negli anni Ottanta sono stati favoriti e attuati la globalizzazione dei commerci, la libertà di movimento dei capitali e l’abbattimento delle barriere tra Paesi. Ma è stata posta pochissima attenzione alla regolazione di questi scambi.  

Neppure il mercato dell’energia si sottrae a questi meccanismi, vero?
È così, gli aumenti sono dovuti al fatto che esistono dei veri e propri cartelli di produzione e vendita dell’energia. Nel momento in cui Europa e Usa decidono di transitare verso un mondo alimentato dalle fonti rinnovabili, il prezzo del petrolio e delle fossili dovrebbe diminuire e invece sta accadendo il contrario, segno che non c’è concorrenza. È particolare poi che in questa situazione si consenta di fare superprofitti ad aziende che dovrebbero operare in regime di concorrenza, in alcuni casi a partecipazione anche pubblica. Società che vendono l’energia a prezzi gonfiati, anche se gli acquisti li hanno fatti anni prima, sulla base di contratti pluriennali stipulati in passato, e che fissano i prezzi sulla base della borsa di Amsterdam e non del costo sostenuto realmente per l’energia. A dimostrazione che il libero mercato è un mito che non funziona.

Che cosa si dovrebbe fare per evitare le spinte inflazionistiche?
La regolazione dell’inflazione è un problema globale che andrebbe affrontato a livello di grandi realtà economiche, se non addirittura a livello planetario. Un modo ci sarebbe: le principali economie del mondo dovrebbero decidere di regolarsi attraverso strumenti di governo internazionale, di scambi, regole, movimenti di capitali e di beni. Ma oggi c’è solo il G20 che si dà dei principi che neppure i componenti rispettano, perché non hanno alcun valore normativo e nessuna forza. Anche l’Onu è fortemente indebolita da molti anni e anche questa tensione in Ucraina ci dimostra che siamo in un mondo allo sbando incapace di autoregolarsi. E a pagare sono naturalmente i più deboli.

Perché?
Perché le famiglie non hanno la possibilità di rivalersi degli aumenti dei prezzi di alcune materie prime. E il loro potere d’acquisto, già stremato, viene ulteriormente ridotto. Per salvaguardarlo e tentare di calmierare i prezzi il governo sta agendo sul piano fiscale con la restituzione o l’abbattimento dell’Iva su certi prodotti, e dando dei sussidi ai nuclei particolarmente bisognosi, bilanciando l’incremento dei beni energetici. Non sappiamo però quanto sia disposto ad accollarsi tutti gli aumenti impegnando i fondi del Pnrr, ma stiamo parlando di decine di miliardi di euro. Le conseguenze di questa crisi non sono prevedibili, perché molto dipende dalla sua durata. È evidente che c’è un problema rilevante per i lavoratori, e quindi per le famiglie, e i sindacati, ed è la sterilizzazione degli incrementi salariali.

Quali sono i livelli di questa sterilizzazione?
Se facciamo i conti scopriamo che dal 1993 a oggi le retribuzioni sono cresciute quattro volte meno del Pil, cosa che non accade nel resto dell’Europa. Siamo l’unico Paese Ocse dove dal 1990 al 2020 c’è stata una perdita del potere d’acquisto, e questo è inaccettabile. Vuol dire che perdiamo la capacità di comperare il prodotto del nostro lavoro. La domanda è: per chi lavora il lavoro?  L’Italia vive impoverendo una parte del Paese, una parte si appropria della ricchezza prodotta e una parte è condannata a una vita di miseria.

I rinnovi dei contratti servono a questo, ad adeguare i salari al costo della vita. O no?
In Italia abbiamo più del 50 per cento dei lavoratori dipendenti in attesa del rinnovo contrattuale, attesa che in media si attesta sui due anni, due anni e mezzo, legata alla crisi del Covid ma anche all’incapacità di firmare i contratti quando scadono. Più tardi rinnovi, più gli aumenti concordati è come se non ci fossero. Un discorso diverso va fatto per il lavoro flessibile, che non va abolito del tutto, perché può essere funzionale, ma va pagato di più.

C’è una soluzione alla perdita del potere di acquisto?
Il carico dell’inflazione va suddiviso sulla base della concertazione sociale. In presenza di shock come questi che sono già esistiti, pensiamo a quelli petroliferi degli anni Settanta, governo, imprese e sindacati ma anche soggetti del terzo settore in rappresentanza delle famiglie, devono concertare un processo di disinflazione dell’economia, che va fatto gradualmente. Contenere l’aumento di prezzi e salari, ma anche la spesa pubblica, con un coordinamento che eviti le misure di restrizione monetaria. Il rischio è che l’inflazione si risolva con un aumento dei tassi di interesse, del rendimento dei titoli pubblici, tutte misure che strozzano l’economia e portano a una caduta dei ritmi di crescita, a una maggiore sofferenza dei ceti più deboli e una crescita della disoccupazione. Siamo a un passaggio inevitabile e cruciale: mi auguro che governo, partiti e sindacati promuovano un processo di concertazione sociale della politica dei redditi.