Gandino ospita poco più di 5.000 anime, e dallo scampanare continuo che ti accompagna ovunque si direbbe anche parecchie vacche. È circondato dall'abbraccio stretto delle Prealpi, a una ventina di chilometri da Bergamo, in direzione nord-est. È in Val Seriana. E per arrivarci il fiume Serio lo costeggi per un bel po', l'acqua è limpida e scorre veloce. Poi superi una decina di piccole industrie tessili, capannoni colorati con grandi insegne. Molti sono oramai cadenti, scheletri vuoti, intonaco a chiazze. Dopo ancora, colline morbide solcate da sentieri, e tornanti stretti per le auto e qualche camion. Campanili e ciminiere, però, qui la fanno ancora da padrone. Ora et labora in salsa bergamasca. Le scuole elementari, invece, stanno in un bell'edificio di mattoni rossi. È sera, solo qualche finestra è illuminata. Al piano terra due aule sono state unite per creare una piccola palestra, con tanto di parquet a terra, specchi ai muri e passamano tutt'intorno.

Il silenzio dei corridoi illuminati a neon è rotto da una decine di bambine e ragazze in tutù nero o rosa, che sciamano ciarlando. Entrano tutte insieme. Poi parte una sonata per pianoforte di Chopin. E iniziano tutte a ballare. Passi leggeri, salti, piroette, allunghi. Qualche piccolo inciampo, recuperato subito con un colpo di reni fulmineo.  A condurre le danze c'è sempre lei: Lidia Salvatoni, tuta nera attillata, scaldamuscoli, e capelli tirati sulla nuca. È la maestra: 51 anni, due figli grandi. Fa questo mestiere, in questa valle, da 33 inverni. Ormai è un'istituzione. E si vede, perché corregge le sue giovani allieve con decisione, ma anche con grande dolcezza, alternando con maestria sorrisi a sguardi più accigliati. D'altronde, molte di queste ragazze le ha viste crescere. Alcune sono già adulte e madri, e portano da lei le figlie. La sua associazione “Fuorididanza” è nata nel 1989, e va avanti quasi ininterrottamente da allora.

Quasi. Perché qui, nel marzo 2020, il covid ha colpito duro. Da Alzano a Leffe, passando per Nembro, Albino e qui a Gandino. L'intera valle è diventata un enorme focolaio nella catastrofe bergamasca. Non un paese è stato risparmiato dall'epidemia. “La mia scuola nasce per portare qualcosa di diverso in questo paesino, per dargli vita, in qualche modo - ci racconta non senza un pizzico di orgoglio Lidia -. In passato ho gestito addirittura 180 allieve. Sentire quel silenzio, rotto solo dalle sirene delle ambulanze, e vedere il paese completamente vuoto è stato quindi terribile. Poi il mio sogno s'è spento di colpo. Abbiamo dovuto chiudere, così come tutte le altre attività e i negozi qui nella valle”.

“Pensavo sarebbe durato poco, magari fino a Pasqua - e ora i suoi grandi occhi castani s'adombrano ancora di più -. Invece il tempo passava, e non riuscivo a vedere la luce in fondo al tunnel”. La scuola di Lidia è un'associazione, lei non ha una partita Iva. Quindi durante quel periodo non ha avuto diritto a nessun indennizzo. Non entrava nemmeno un euro in casa, insomma. “Dovevo fare qualcosa per andare avanti, per pagare le bollette. E per non pensare a tutto quello che stava succedendo”.

Po la svolta, la prima piroetta. Una piccola azienda metalmeccanica della zona, una delle tante che punteggiano la valle con sbuffi bianchi sul fondo verde e azzurro da cartolina, aveva bisogno di personale. Dovevano produrre 50.000 perni per la nuova linea della metropolitana di Milano, e serviva qualcuno, non necessariamente esperto, per lavorarli al tornio. “È un lavoro in serie. Si prende il pezzo, lo si mette nel tornio. Poi lo si lavora e si controlla la misura. E così si fa per tutti gli altri pezzi”. Lidia conosce il proprietario dell'azienda. Qui d'altronde si conoscono davvero tutti. E lui glielo propone: perché non lo fai tu?. “All'inizio ho avuto una reazione strana. Ho pensato: e se poi non posso riaprire la scuola? E se questa diventa davvero la fine del mio sogno?”. L'urgenza di portare a casa la pagnotta, però, ha la meglio.

Dal tutù alla tuta blu, direbbe qualcuno. Come un favola al contrario. La fabbrica è più a valle, alle porte del paese. Dentro un grande capannone macchinari enormi levigano il metallo in un rumore assordante. Gli operai sono tutti uomini, perlopiù giovani. Alcuni giovanissimi. Alle pareti i poster dell'Atalanta e di qualche donna seminuda. L'odore di grasso e ferro è intenso. “Ci ho lavorato per un anno a quel tornio. Ovviamente io non riesco ancora a programmarlo, non ci provo neanche. Perché il mio lavoro e insegnare danza”.

Eppure Lidia ha preso quei pezzi di ferro e li ha messi nella macchina. Li ha controllati e ripuliti. Ha riempito scatoloni e scatoloni di perni limati di giustezza. Fino all'ultimo, fino il 50millesimo. “È sicuramente un lavoro in cui ti sporchi le mani. Magari qualcuno può pensare che sia un lavoro da uomo, e può anche essere. Ma so che da queste parti ci sono molte operaie donne e alla fine anche io non ho avuto problemi. Però, mettevo su due paia di guanti per ogni mano, perché la polvere di ferro rovina le unghie. Ai ragazzi non interessa”.

Il suo contratto a termine è scaduto nell'agosto 2021, “ma ogni tanto mi chiamano di nuovo, solo per fare i pezzi in serie però”. Nel frattempo, a fine settembre, Lidia ha potuto riaprire la sua scuola, anche se a ranghi ridotti. Un'altra piroetta. “Rivedere le mie ragazze è stata un'emozione forte. Mi sono messa a piangere. Perché siamo un grande famiglia che danza, e io sono finalmente tornata a fare quello che amo, a vivere grazie alla mia passione. Ma l'esperienza da metalmeccanica me la porto dentro. Ballare e insegnare è il mio sogno, il lavoro in fabbrica è stata la concretezza”.

Quello che a lei interessa, però, è andare avanti. Sempre. “Prima viene la dignità del lavoro, poi la necessità. A me interessa arrivare a fine giornata e sapere di aver fatto qualcosa di proficuo. Magari ho creato una bella coreografia con le mie bambine in palestra, oppure ho portato a casa lo stipendio dopo ore in una fabbrica metalmeccanica". Non importa, come. "Ciò che conta è la dignità di quello che fai”. Anche a costo di sporcarsi le mani con la polvere di metallo. Quella che poi finisce sotto le unghie, e le rovina.