A dominare sono le galline. Rovistano libere tra enormi cumuli di spazzatura. Beccano il pane secco che gli è stato lasciato a terra, razzolano ovunque, scacciano gatti e cani con fare aggressivo. I pochi migranti rimasti tra i container ciondolano lenti nell'aria ferma. Uno di loro, un ragazzo alto e giovane in tuta da ginnastica acetata, le chiama per nome. E le galline pare che gli rispondano pure. Un altro, più basso e più avanti con l'età, s'aggira dentro un cappotto liso e sformato, con un bastone legato a una corda. Lo fa roteare da un lato, mentre le guarda in cagnesco. Dopo qualche appostamento, un colpo secco, ne agguanta una, le tira il collo, e la butta in un calderone di fortuna sotto il quale continua ad ardere da ore un fuoco fiacco. Il cielo, di un azzurro profondo, schiaccia un silenzio spesso, rotto solo dal vento e di tanto in tanto dal canto di un gallo. Da uno dei container arrivano flebili le note di una strana nenia africana. Elettrodomestici abbandonati, panni stesi, biciclette rotte, lattine di birra vuote, bagni in condizioni terrificanti. La giornata è calda, ma il vento è comunque tagliente.

Per arrivare al campo container della contrada di Testa dell'Acqua bisogna percorrere uno stradone lungo e dritto. Sarebbe una zona industriale, ma si vedono solo campi, sterpaglie, immondizia, e un enorme serbatoio di cemento che spicca sulla terra piatta. Rosarno si vede da qui, sta aggrappata a una bassa collina. Su un lato c'è un agrumeto, decine di braccianti africani raccolgono arance e le caricano sul cassone di un camioncino. All'alba e al tramonto li vedi passare tutti pedalando sullo stradone. Durante la giornata, in pieno sole, no. Non c'è nessuno in giro, solo qualche camion, e ogni tanto una volante della polizia.

I 22 parallelepipedi bianchi del Campo container formano una specie di paese, con tanto di piazza e vicoletti laterali. Stanno qui dal gennaio 2010, dopo la rivolta dei migranti contro lo sfruttamento e le violenze della ’ndrangheta. Doveva essere temporaneo, invece c'è ancora. Per alcuni anni è stato gestito da un’associazione, poi è stato totalmente abbandonato da comune, regione e istituzioni nazionali. In passato il campo ha ospitato anche 250 persone, ma fare i conti da queste parti è sempre molto complicato, perché da anni è completamente autogestito. “Quest'anno sono molto pochi, anche se siamo all'inizio della stagione - ci racconta Celeste Logiacco, segretaria della Camera del lavoro della Piana di Gioia Tauro -. In molti hanno deciso di non tornare, e i motivi sono diversi. C'è anche il fatto che non tutti riescono a trovare un'occupazione in agricoltura, molti vengono impiegati in edilizia e nel commercio, oppure nel turismo. Settori che quindi oggi vanno controllati, perché sono a rischio caporalato”. La crisi, però, s'è fatta sentire pure per loro. Nel loro eterno vagare per campi, stavolta in molti hanno evitato queste latitudini.

I migranti nel campo, in ogni caso, sono pochissimi, e sono qui perché oggi non hanno trovato da lavorare. Nessuno li ha chiamati, nessuno li è venuti a prendere con il furgone. Hanno visto i loro compagni uscire alle prime luci del giorno, li vedranno tornare a sera, sperando di essere tra loro l'indomani. Ce n'è uno invece che non esce da molti mesi. Si chiama Joseph Djian, e secondo il suo permesso di soggiorno ha 63 anni. Sempre stando ai suoi documenti, è in Italia dal 2007, quando ha lasciato moglie e figli ad Abuakwa, nella regione di Ashanti, in Ghana. Ha avuto dei problemi col governo del suo Paese, per questo se n'è andato. Il suo permesso per “protezione speciale” scadrà nel settembre prossimo.

Joseph, zuccotto scuro in testa, tuta da ginnastica e piumino rosso, se ne sta seduto su una seggiola di plastica, nel bel mezzo del campo. Una corta barba bianca gli copre il mento, poche rughe, soprattutto sulla fronte. Gli occhi sono liquidi, e iniettati di sangue. Davanti al suo container ha piazzato delle gomme d'auto, che gli servono come scalini. Ha un problema alla gamba sinistra, si muove con difficoltà, zoppica aggrappato a una stampella. Per questo non può lavorare. Dal giorno in cui s'è fatto male, non ha più messo piede fuori di qui, se non per arrivare in paese in bici quando ancora ce la faceva. Non va nei campi, non ha soldi, non ha da mangiare. Parla poco, quasi per niente. Ogni tanto soffia via un sospiro lungo, che è una specie di rantolo. Sopravvive grazie agli altri ragazzi che gli danno qualcosa, e alle associazioni che insieme alla Cgil si occupano di lui. Passa le giornate così, passeggiando avanti e indietro per sciogliere i muscoli della gamba zoppa, poi si ferma a lungo per riposare. Si volta di tanto in tanto per osservare una gallina, guarda per qualche secondo i container che spiccano bianchi sotto la luce piatta del mattino. Soppesa la stampella, si massaggia la coscia.

Per gli altri ospiti del campo Joseph è un'istituzione, una figura quasi paterna. Perché è il più anziano di tutti, e quello che sta qui da più tempo. Molti a sera lo vanno a trovare e gli chiedono consigli. “Io gli dico di lavorare duro, di lavorare sempre, di bere poco e di non fare casini”, ci dice a bassa voce, in un inglese un po' stentato. “Loro possono lavorare e devono farlo seriamente. Io non posso fare niente, sto qua. Non posso uscire, sono intrappolato”. E ti guarda dritto in faccia con quegli occhi che ti trafiggono. Tu non hai risposte, lui sospira ancora. Poi distoglie lo sguardo, e non dice più nulla per un bel po'. Dopo qualche tempo, arriva un prete. Lo saluta, scambiano qualche parola, gli porta un po' di pizza. Mentre Joseph mangia, il prete sale su un container per aiutare un altro migrante a coprirlo con teli di plastica. Quando piove entra acqua a fiumi e salta la corrente. Joseph li osserva senza troppo interesse.

“Dal punto di vista dell'accoglienza, nella Piana è cambiato poco o niente - dice ancora Celeste Logiacco -, ma sicuramente la pandemia ha aggravato ancora di più le condizioni di vita già precarie dei lavoratori migranti. In un territorio come questo, l'assenza di diritti universali come quello alla salute si è percepita ancora di più. È aumentata la distanza tra le persone, molti si sono sentiti abbandonati. Per un bracciante che vive alla giornata essere in quarantena, com'è successo in questo campo durante la seconda ondata, vuol dire non mangiare e non sostenere le famiglie nei paesi di origine”.

A fine settembre 2021, al palazzo della Regione di Reggio Calabria è stato firmato un protocollo “per il superamento della situazione emergenziale che caratterizza le condizioni dei lavoratori stranieri presenti nella Piana di Gioia Tauro”. Sul sito del Ministero dell'Interno si legge: “Il documento intende affrontare con una politica attiva d’intervento, le principali criticità del fenomeno: da un lato, le problematiche connesse alla sistemazione alloggiativa e all’ospitalità in genere dei migranti, dall’altro il ripristino di condizioni di piena legalità in un mercato del lavoro connotato dal caporalato e dallo sfruttamento lavorativo”. Per monitorare lo stato di avanzamento dell’iniziativa, è anche prevista “l’istituzione presso la prefettura di una 'cabina di regia', aperta alla partecipazione delle Forze dell'ordine, della direzione territoriale del Lavoro, degli enti previdenziali, dell’azienda sanitaria provinciale, delle parti sociali e del terzo settore”.

Di tutto questo, ovviamente, Joseph non sa niente. La pandemia l'ha vissuta rinchiuso nel campo. Quello che sa è di aver quantomeno ricevuto due dosi di vaccino. A partire dal luglio scorso, infatti, la Cgil, insieme alla prefettura, alle forze dell'ordine e ad alcune delle realtà associative del territorio, come Emergency, Caritas e Libera, ha avviato una massiccia campagna di vaccinazione per i migranti della Piana. “Con l'obiettivo di non lasciare indietro nessuno, gli ospiti del Campo container e della Tendopoli di San Ferdinando sono stati vaccinati con prime e seconde dosi - racconta Logiacco -. Ci sono state diverse giornate di vaccinazione, anche se non è stato semplice. Bisognava mediare, e spiegare ai braccianti perché dovevano farlo. E poi, in un primo momento, la piattaforma regionale non consentiva nemmeno di registrare coloro che erano sprovvisti di codice fiscale. Grazie alla nostra battaglia, però, anche questo scoglio è stato superato”. Istituzioni, associazioni e Cgil ora si stanno organizzando per le terze dosi: “La campagna continua, insomma. Perché in una terra dove tutto viene negato, e dove il diritto alla salute è ancora più precario e spesso inesistente, è necessario garantire a tutti, soprattutto ai più fragili, la possibilità di vaccinarsi”.

Tra i più fragili c'è sicuramente Joseph, in attesa della sua terza dose, e in una specie di quarantena permanente. Al calare del sole se ne sta ancora seduto sulla seggiola di plastica in mezzo al campo, poco lontano dal fuoco. È ancora circondato dalle galline, l'aria ronza di mosche. Ora osserva in silenzio i ragazzi che tornano dai campi. Arrivano alla spicciolata, in bici o a piedi, e il campo riprende un poco di vita. Molti lo salutano con un gesto della mano. Lui ricambia con una mezza parola, o alzando impercettibilmente la stampella da terra. Qualcuno è già ubriaco, barcolla con una lattina scura in mano. Joseph lo guarda e scrolla dalla testa il suo disappunto. I migranti, tutti giovani e forti, ora si trascinano dietro secchi colmi di acqua, si lavano, poi rientrano nei loro container. Dall'interno arrivano gracchianti ritmi africani. Il sole è ormai scomparso dietro l'orizzonte. Joseph osserva tutto in silenzio. Poi inclina il capo, il suo sguardo si perde chissà dove. E resta lì, ai margini. Come sempre.