Identificare istruzione e formazione come elementi imprescindibili per raggiungere opportunità, altrimenti precluse al cittadino, non può essere solo uno slogan o una buona intenzione. I dati Istat sui livelli del 2020, certificano –infatti – che questi percorsi sono preclusi ad un grande numero di cittadini. In Italia abbiamo un -12,7% di laureati rispetto alla media europea (20,1% IT/32,8% Ue), con una distanza che non si accorcia ma addirittura aumenta per quanto riguarda i diplomati con il -16,1% (62,9% IT/79%Ue).

In queste cifre, è rappresentato uno dei principali problemi del nostro Paese. Perché allora è stato dato così poco rilievo pubblico a questi dati? Forse perché risposte positive per invertire la tendenza sono difficili e soprattutto confuterebbero molte teorie e luoghi comuni.

Scorriamo l’analisi che Istat propone. Il gap fra Italia e resto d’Europa è sempre più ampio relativamente a quelli che unanimemente (o forse no?) sono considerati livelli di formazione indispensabili per la crescita individuale delle persone, a partire dalla relazioni sociali e dalla partecipazione al mercato del lavoro. La società dell’individualismo e della competizione di costo si nutre di queste difficoltà.  Si confermano e si accentuano i divari territoriali, sono circa il 6-7% in meno i laureati e i diplomati al Sud, rispetto al resto del Paese.

Ma è soprattutto, ancora oggi, la condizione socio-economica della famiglia (reddito e livello di istruzione dei genitori) che influenza al ribasso in modo decisivo, segnando per tutto il percorso educativo il futuro di troppi giovani, dall’accesso agli asili nido alla scelta del percorso scolastico, fino ai terribili temi della dispersione e dell’abbandono scolastico.

La dispersione è il primo livello, con un’alta esclusione di minorenni dal percorso della scuola dell’obbligo. È stabilmente sopra il 20% nel Meridione e brodo di coltura di molte piaghe sociali come bullismo,  violenza, microcriminalità, che minano il futuro di migliaia di ragazze e ragazzi. L’abbandono scolastico è il fenomeno ulteriore: misura la quantità di persone non più in obbligo scolastico che abbandonano o non concludono il corso di studi intrapreso. Istat misura anche questo dato, relativo ai giovani tra i 18 ed i 24 anni e conferma che gran parte di queste forzate scelte sono dovute alla condizione sociale di partenza.

L’abbandono prima del diploma riguarda il 22,7% di studenti i cui genitori hanno al massimo la licenza media, contro il 2,3% di quelli che hanno genitori laureati. La proporzione è simile, anche relativamente alla condizione economica, se si prende a riferimento le professioni meno qualificate rispetto a quelle altamente qualificate.

Purtroppo, anche la partecipazione degli adulti a percorsi formativi, è più bassa della media europea. Tutte le analisi, e la pandemia ha ulteriormente acuito i problemi, affermano che il capitale umano della persona non può limitarsi solo ai percorsi educativi scolastici (e abbiamo appena visto quanto siamo arretrati), ma che l’apprendimento durante tutta la vita assume una fondamentale rilevanza anche alla luce dei tumultuosi cambiamenti in atto, sia per evitare l’invecchiamento delle competenze che per une cittadinanza attiva fatta di coesione e vita sociale. Invece, anche per la formazione degli adult, fra i fattori che più interessano la mancata partecipazione vi sono sia il livello dell’istruzione posseduto (partecipa il 16,9% dei laureati contro l’1,4% dei livelli di studio più bassi) che la situazione professionale, con una partecipazione più bassa tra i disoccupati che tra gli occupati.

Il livello di istruzione dei partecipanti è più elevato fra le donne rispetto agli uomini, sia per l’istruzione formale che per le altre attività formative, ma tutto questo non attenua lo svantaggio delle donne in ambito lavorativo. Emerge – dunque - dal complesso dei dati, l’immagine precaria di un Paese in cui i livelli di istruzione e formazione rappresentano la cartina di tornasole di molti dei problemi strutturali, a partire dal lavoro, dalla sua quantità e qualità. La popolazione in Italia diminuisce e il quadro demografico per il futuro è fosco (forse per la prima volta la quantità di nuovi nati annui scenderà sotto i 400 mila). Nonostante questo si insiste nell’equazione fra calo demografico e risorse a disposizione per la formazione, come se non ci fosse niente da recuperare. La scuola pubblica è uno dei pochi presidi territoriali esistenti: non ci dice niente questo per importanti investimenti anche a favore della coesione sociale e della formazione coerente?

La quantità di lavoro in Italia, da troppo tempo si aggira attorno al 58% del tasso di occupazione (9 punti in meno della media europea); eppure i dati indicano che l’occupazione è percentualmente più alta nei laureati rispetto ai titoli di studio inferiori e i lavoratori della conoscenza risultano più “protetti” dagli shock occupazionali. I laureati sono pochi ma, nonostante questo, a decine di migliaia emigrano ogni anno verso altri paesi in cui trovano un adeguato riscontro professionale e un salario dignitoso. Gli estremi combaciano: un basso livello di istruzione e di abbandono scolastico si lega ad un modello produttivo povero in cui ancora troppe realtà tendono a legarsi alla competizione di costo, con un anomalo addensamento degli occupati nelle qualifiche medio-basse e con troppa precarietà e involontarietà. Non sarebbe difficile individuare il da farsi: il problema è la volontà politica e imprenditoriale. 

Parlare in questo contesto (e vanno aggiunti i dati sul livello di istruzione degli stranieri) dei target della strategia europea può apparire anacronistico ma dobbiamo farlo. L’occasione a disposizione in questa fase è irripetibile ed è rappresentata dai fondi europei. Non basta la certezza di spenderli nei tempi previsti, occorre utilizzarli e pianificarli per superare i problemi, ed è questo l’aspetto ancora non chiaro, come anche la responsabilità che grava su tutti.

(Fulvio Fammoni, presidente della Fondazione Di Vittorio)