Il 1960 è uno dei momenti critici nella storia d’Italia: fine della guerra e sconfitta del fascismo risalgono a soli quindici anni prima, la vita democratica si è fatta strada tra ricostruzione, lotte sociali, contrasti politici. In un momento di forti trasformazioni produttive, con una situazione sociale e politica tesa, la formazione di un governo democristiano con l’appoggio esterno del Movimento sociale italiano viene da molti percepita come il netto orientarsi della classe di governo e del mondo industriale nuovamente verso istanze fasciste.

Fernando Tambroni avrebbe dovuto, almeno nelle aspettative, guidare un governo di transizione verso una maggioranza di centrosinistra, tuttavia nel discorso con il quale si presenta alle Camere per chiedere la fiducia il presidente del Consiglio incaricato presenta un indirizzo politico ispirato al binomio "legge e ordine", ottenendo per la prima volta la fiducia grazie ai 24 voti del Movimento sociale italiano, determinando uno spostamento a destra degli equilibri politici e favorendo il tentativo del partito neofascista di uscire dall’isolamento in cui fin dalla sua nascita era stato relegato.

Per protesta contro l’appoggio determinante del Msi al governo si dimettono i ministri della Dc Fiorentino Sullo e Giorgio Bo, i sottosegretari Antonio Pecoraro, Lorenzo Spallino e Giulio Pastore. Annunciano la volontà di rimettere il loro incarico i ministri Benigno Zaccagnini, Emilio Colombo, Mariano Rumor, Mario Martinelli, Guido Gonella, Armando Angelini e Antonio Segni ed il Direttivo dei deputati della Dc si pronuncia per le immediate dimissioni del governo, richiesta cui si associano tutti i partiti. Nel pomeriggio del 12 aprile Tambroni si reca da Gronchi per presentare le dimissioni. Fallito il tentativo di Fanfani di costituire un nuovo governo e non avendo altra alternativa che lo scioglimento delle camere in prossimità della sessione di bilancio, il presidente della Repubblica Gronchi rinvia Tambroni in Parlamento per chiedere la fiducia del Senato sulla base di un mandato a tempo limitato. Il 29 aprile la direzione nazionale della Dc assicura pieno sostegno a Fernando Tambroni al di là di ogni scelta politica.

Il 14 maggio 1960 il Movimento sociale italiano ufficializza il suo sesto Congresso per il 2 luglio a Genova, città medaglia d’oro alla Resistenza. Non solo: il Movimento sociale sceglie come sede dello stesso il Politeama Margherita, a due passi dal Ponte Monumentale e dal Sacrario dei Caduti Partigiani.

In un rapporto prefettizio si legge: “Tale notizia ha provocato viva reazione negli ambienti partigiani che si propongono scioperi ed azioni di piazza. Anche il senatore Terracini, nel comizio tenuto il 2 corrente a Pannesi, ha affermato che la scelta di Genova è un’offesa ai valori della città decorata con la medaglia d’oro e che bisogna riunire tutte le forze della resi­stenza per tale occasione”.

Gli ex partigiani, appoggiati dalla popolazione e dalla nutrita comunità dei portuali, iniziano a picchettare ogni angolo del capoluogo ligure; i sindacati di categoria fanno la voce grossa con il governo: quel congresso a Genova non si deve tenere, a qualunque costo. Dopo due cortei, il primo svoltosi il 25 giugno, e il secondo, il 28 giugno, concluso con un comizio di Sandro Pertini, il 30 giugno la Camera del lavoro proclama lo sciopero generale. Un lungo corteo si dipana per le vie cittadine.

In piazza quel giorno c’è la Cgil, ci sono i portuali, i professori dell’università, gli studenti, i lavoratori dei trasporti e del commercio. Ci sono i vecchi partigiani e tantissimi giovani, padri, madri, nonni e figli, una miscela inaspettata che fa ripensare ogni schema politico. Risalendo dal porto migliaia di cittadini, in massima parte di giovane età (i cosiddetti ragazzi dalle magliette a strisce) si riversano per le strade del capoluogo. Alla testa della manifestazione gli operai metalmeccanici e i portuali, ad aprire il corteo i comandanti partigiani. La manifestazione procede in maniera tranquilla, ma davanti al tentativo da parte della polizia di sciogliere il corteo e alla minaccia della calata in massa dei fascisti verso Genova esplode la rabbia popolare. I vecchi partigiani, le giovani leve della classe operaia e gli studenti universitari, trovatisi per la prima volta fianco a fianco in unità d’intenti, non solo non soccombono alla polizia, ma impediscono il Congresso missino, mandando in crisi il governo.

Il Pci chiede a gran voce le dimissioni. Trascorrono solo pochi giorni (è il 5 luglio) e a Licata, in provincia di Agrigento, durante una manifestazione unitaria di braccianti e operai, la polizia uccide Vincenzo Napoli.

Il 6 luglio a Roma viene negata l’autorizzazione a una manifestazione di protesta per i fatti appena accaduti a Genova e in Sicilia. La manifestazione però si tiene ugualmente: sfidando apertamente il divieto i romani scendono per le strade. Porta San Paolo si presenta accerchiata da celerini e carabinieri, per la prima volta vengono utilizzati i carabinieri a cavallo.

In solidarietà con quanto successo a Genova, Roma e Licata, il 7 luglio 1960 a Reggio Emilia è indetto lo sciopero generale. La polizia spara nuovamente contro i dimostranti e cinque persone rimangono a terra uccise: Lauro Farioli (22 anni), Ovidio Franchi (19), Emilio Reverberi (39), Marino Serri (41) e Afro Tondelli (36). Tutti e cinque operai e comunisti, alcuni ex partigiani.

L’8 luglio, a Palermo, il centro è presidiato fin dalle prime ore del mattino dalla Celere per disturbare lo sciopero generale proclamato dalla Cgil per i fatti di Reggio Emilia. Negli scontri con la polizia restano uccisi: Francesco Vella, 42 anni, sindacalista; Giuseppe Malleo, 16 anni; Andrea Gancitano, 18 anni; Rosa La Barbera, 53 anni, casalinga; 36 manifestanti sono feriti da proiettili; 400 i fermati, 71 gli arrestati. Sempre l’8 luglio, a Catania, rimane ucciso da un colpo di arma da fuoco sparato dalla polizia Salvatore Novembre, giovane lavoratore edile di 20 anni.

Scriverà Luciano Romagnoli su Rinascita: “Che cosa era in discussione a Genova? E, dopo ancora, a Licata, a Roma e a Reggio Emilia? Che cos’era in discussione nel paese? Era il fondamento stesso dello Stato democratico: l’antifascismo, la resistenza e la Costituzione repubblicana”.

Così nel mese di luglio, sempre su Rinascita, Vittorio Foa: “Il fascismo per i lavoratori italiani oggi non è solo l’eco remota e nostalgica delle squadracce e delle aquile e degli orpelli barbarici dell’età mussoliniana, ma è, nelle condizioni mutate, l’arbitrio in luogo della giustizia, la disciplina subordinata in luogo della parità dei diritti e doveri reciproci fra lavoratore e padrone, la corruzione e l’avvilimento, la mancanza di prospettiva, il contrasto tra i profitti giganteschi e i salari stagnanti, lo sfruttamento intensivo della forza lavoro che impedisce all’uomo, finito il lavoro, di avere forze bastevoli per partecipare alla vita nelle sue forme più alte”.

“Abbiamo sconfitto i fascisti e Tambroni”, affermerà un esultante Rinaldo Scheda su Rassegna Sindacale. È la fine davvero. Con la piena approvazione delle convergenze democratiche tra Dc, Psdi, Pri e Pli, Tambroni riunisce il Consiglio dei ministri. Preso atto della formazione di una nuova maggioranza il presidente del Consiglio si reca dal capo dello Stato per presentare le dimissioni.