Il 31 maggio 1996 muore a Roma Luciano Lama, giovane partigiano protagonista della stagione fondativa della democrazia italiana, dirigente sindacale e uomo di sinistra, costruttore del sindacato e della Repubblica. Fra i principali artefici dell’intesa unitaria, strenuo sostenitore dell’unità sindacale e ideatore del Patto federativo dopo che le speranze dell’unità organica erano state momentaneamente accantonate in seguito alla vittoria del centro-destra nelle elezioni politiche anticipate del maggio 1972, la sua Segreteria è la più lunga nella storia ultracentenaria della Cgil.

La parabola del “gigante buono” (la definizione è di Aris Accornero; “Il più bello dei marxisti famosi”, lo promuoverà Epoca; “Un uomo che parlava al paese” nelle parole di Giorgio Napolitano il giorno seguente alla sua morte) alla guida del più grande sindacato italiano è racchiusa tra due estremi opposti: diventa segretario generale della Confederazione nel 1970, a poche settimane dall’autunno caldo, cioè dal punto più alto raggiunto dal sindacato in termini di potere nella sua storia, mentre al momento della sua uscita, avvenuta nel 1986, sei anni dopo la terribile sconfitta alla Fiat di Torino con la “marcia dei quarantamila”, dopo la rottura della Federazione unitaria nel 1984 e la sconfitta nel referendum sulla scala mobile dell’anno successivo, il sindacato - soprattutto la Cgil - tocca uno dei punti più bassi, di maggiore debolezza nel suo percorso.

Amava definirsi “un riformista unitario”. E l’unità, come valore in sé, è sempre stata la sua bussola, da quando, nel novembre 1944 diventa segretario della Camera del lavoro di Forlì, per approdare tre anni dopo alla Segreteria confederale, chiamato da Giuseppe Di Vittorio in persona.

“Tra Lama e Di Vittorio - scriveva Giancarlo Feliziani - si instaura un rapporto particolarissimo. Per Lama, Di Vittorio è un maestro di vita, per certi versi un secondo padre. Ha stima incondizionata e grande tenerezza per quel dirigente straordinario in grado di guidare scioperi, indirizzare congressi ma anche capace di addormentarsi improvvisamente nel bel mezzo di una riunione. Per Di Vittorio, uomo appassionato e dalla forte personalità, autonomo nel pensiero e non condizionato da vincoli di appartenenza politica, un uomo schietto che ha dedicato la vita alla causa del lavoro, mai disposto ad accettare ordini, neppure se arrivano dalle Botteghe Oscure o da Togliatti in persona, per Di Vittorio quel giovane con la faccia aperta ai dubbi rappresenta il futuro, la speranza, l’entusiasmo, l’intelligenza politica. Ma quel giovane disinvolto e laureato in Scienze sociali rappresenta anche ciò che lui, bracciante poverissimo, avrebbe voluto ma non è riuscito a essere. Quei due uomini diventano inseparabili: dove c’è Di Vittorio, un passo indietro, c’è sempre anche Luciano Lama che giorno dopo giorno va assumendo nel sindacato un ruolo di sempre maggior spicco. La sua ascesa irresistibile è nelle cose, nell’organizzazione quotidiana, nella progettualità della Cgil”.

Dal sindacato dei chimici alla Fiom, dalla segreteria nazionale alla carica di segretario generale della Cgil, l’ascesa di Lama nella organizzazione è inarrestabile. A lui l’Italia deve molto: ha saputo unire e tenere insieme nei momenti difficili, senza strafare nei momenti delle conquiste, senza arretrare nei momenti delle sconfitte. Anche nelle fasi più critiche degli attacchi alla democrazia, anche in quelle di arretramento e divisione sindacale.

“La Cgil mi ha fatto come sono - dirà salutando l’organizzazione nel 1986 - mi ha dato le ragioni più profonde e grandi di vita e di lotta. Mi ha dato una cultura,  un’etica, una educazione sociale e politica divenute parte insondabile della mia persona”. Il "signor Cgil", il "il segretario con la pipa", si spegne a Roma il 31 maggio del 1996 nel giorno della fiducia al Governo Prodi, una vittoria a lui dedicata.

“Venerdì scorso - annotava sul suo diario Bruno Trentin - è morto Luciano Lama. E da quel momento (…) mi sono ritrovato immerso nella tristezza e nei ricordi (…) Molte cose ci hanno diviso durante la sua direzione della Cgil e dopo; e certamente le nostre ‘ansie’ erano diverse. Ma egli resta il dirigente migliore che la Cgil poteva esprimere nel lungo periodo della sua reggenza e ha segnato una parte importante della nostra vita. Certamente della mia”.

“Intravidi per la prima volta Luciano una sera di febbraio del 1948 nella penombra di uno scompartimento del treno che da Genova ci riportava a Roma e a Napoli di ritorno sia lui che io da una manifestazione nazionale di giovani del Fronte popolare - scriveva su l’Unità Giorgio Napolitano - Era già vice segretario della Cgil. Giovane e straordinariamente maturo incuteva rispetto. Scambiammo le prime battute di un dialogo che sarebbe continuato tra noi per decenni”.

“La Cgil tutta - riporta ancora il giornale - sfila davanti alla salma di colui che ne fu un grande leader. (…) Pierre Carniti è un po’ ricurvo, come sotto il peso di un grande dolore e dice: ‘Perdo non solo il compagno di tante battaglie, ma soprattutto un amico fraterno’.”. “Di Luciano Lama ricordo il suo grande e fiero sorriso - dirà Achille Occhetto - era tolleranza, ed insieme caparbietà nel difendere le sue idee. Come quel giorno della svolta, davanti a Botteghe Oscure…”.

“La scomparsa di Lama - diceva il giorno della sua morte Daniele Manca - è per me un dolore immenso. È una delle persone alle quali devo di più come amministratore e dirigente politico. L’ho conosciuto a 20 anni e ricordo che la sua imponenza mi metteva quasi soggezione. Ma frequentandolo ho compreso che i suoi modi schietti verso noi giovani avevano lo scopo di trasmetterci il senso vero della politica, dell’impegno e del servizio per il partito, per le istituzioni, per la comunità. Quella volontà ferrea spesa alla ricerca del bene comune, quella ricerca della coesione, dell’unità fanno parte dell’insegnamento che io e altri della mia generazione abbiamo ricevuto da lui. Era davvero lo ‘zio’ per tutti noi. Da segretario dei Ds ho avuto un rapporto quotidiano con Luciano e posso dire che c’era sempre. Aveva la capacità di dare il consiglio giusto al momento giusto, dava una mano a chi gliela chiedeva senza chiedere nulla in cambio. Ricordo con profondo affetto le belle lettere che mi ha scritto in tante occasioni, quando sono diventato segretario, consigliere regionale e poi sindaco. Lettere in cui mi spronava ad andare avanti, affrontando le sfide che mi si presentavano, perché lui amava guardare oltre, verso il futuro. Ricordo, inoltre, le tante discussioni che facevamo, in federazione o a casa sua, perché ogni occasione era buona per aiutarci a fare sempre meglio, perché ci voleva bene davvero”.

 

“Ho mille ricordi di Luciano - gli faceva eco Marco Raccagna - È stato un uomo di sinistra sempre, con coerenza e passione. Una sinistra fedele ai suoi valori e riformista. E’ stato un uomo leale, appassionato, sempre teso a trovare una sintesi e pronto ad aiutare le giovani generazioni nell’avvicinarsi al “fare politica” e nel prendere delle responsabilità più alte. Lo chiamavamo tutti ‘lo zio’. Perché per noi era la persona saggia a cui chiedere consiglio o l’amico più adulto col quale scambiare una battuta. Ricordo quella volta che, da capogruppo dei Ds, lo chiamai per venire immediatamente in consiglio comunale per votare una delibera importantissima; e lui, che era intento a preparare i ragù del ristorante “La chiocciola” di cui era anima e chef alla Festa dell’Unità, dopo pochissimi minuti arrivò ansimante, sudatissimo e imbrattato di sugo, dicendomi che se l’avessi fatto un’altra volta sarebbe morto di infarto. Luciano era questo: generosità, franchezza e altissimo senso del dovere”.

 

“Luciano Lama - scriveva Bruno Ugolini - aveva una grande qualità: sapeva abbandonare il cosiddetto “sindacalese”, un linguaggio spesso tecnico o burocratico. I suoi discorsi, i suoi interventi non volevano farsi capire solo dai gruppi dirigenti sindacali, o dai dirigenti di partiti e governi. Parlava a tutti, al di là di ogni confine ideologico, parlava al Paese”.

 

“Abbiamo sempre cercato di parlare ai lavoratori - diceva del resto il segretario salutando la sua Cgil - come a degli uomini, di parlare al loro cervello e al loro cuore, alla loro coscienza. In questo modo il sindacato è diventato scuola di giustizia, ma anche di democrazia, di libertà; ha contribuito a elevare le virtù civili dei lavoratori e del popolo”.

 

“Grazie per avermi offerto una vita piena - diceva - una causa grande, una ragione giusta di impegno e di lotta. (…) Grazie di cuore, amici miei. Voi sapete che ci unisce e ci unirà sempre un rapporto di fiducia, un amore profondo che nessuna vicenda umana potrà spezzare. Perché ci sono delle radici che non si possono sradicare. Voi, per me, siete quella radice”.