Il tribunale speciale, nella sua sessione del 7 maggio 1927, condanna a 12 anni di carcere un gruppo di comunisti, tutti contumaci. Fra questi Giuseppe Di Vittorio per il quale inizia un lungo esilio, che termina il 10 febbraio 1941, quando è arrestato in Francia dai nazisti. Estradato in Italia, verrà rinchiuso nel carcere di Lucera e poi avviato al confino di Ventotene.

“Il Tribunale speciale per la difesa dello Stato, istituito dopo la promulgazione delle leggi eccezionali del novembre 1926, e l’Ovra (la polizia politica fascista)  - scriveva qualche anno fa Francesco Giasi - perseguitarono almeno tre generazioni di dirigenti e militanti politici. (...) Giuseppe Di Vittorio rappresenta esemplarmente il volto di quest’Italia che si oppose in maniera intransigente al regime liberticida. (…) Egli appartiene a quella generazione che ho definito di 'di coloro che erano giovani' negli anni della grande guerra. L’aveva fatta Di Vittorio la guerra del 1915-18. Era nato nel 1892 a Cerignola, un grosso centro rurale della Capitanata, in provincia di Foggia. Ed aveva trenta anni quando Mussolini si insediò al governo dopo la Marcia su Roma. Quando giunse a Ventotene aveva alle spalle sedici anni di esilio trascorsi per lo più Francia, ma con lunghi periodi di permanenza in Belgio e - per le missioni affidategli dal centro estero del Partito comunista d’Italia - in vari paesi d’Europa, tra cui la Russia sovietica. (…)”.

Da esule Di Vittorio svolge un’attività intensissima. Dal 1928 al 1930 è in Unione Sovietica quale rappresentante della Confederazione del lavoro nell’internazionale sindacale. Poi è a Parigi, ove si dedica al lavoro di direzione della Confederazione del lavoro e all’attività di propaganda fra i lavoratori italiani in Francia. Nel 1936 è tra i primi a raggiungere la Spagna come combattente a difesa della repubblica. Rientrato a Parigi assume la direzione de La Voce degli italiani, quotidiano degli antifascisti in Francia.

Dalle colonne del quotidiano si impegna strenuamente nella battaglia per l’approvazione in Francia dello Statuto giuridico degli immigrati e per il riconoscimento del diritto d’asilo ai rifugiati. È inoltre uno dei primi a denunciare la politica razzista del fascismo e la persecuzione contro gli ebrei in due articoli pubblicati nel settembre 1938.

La Voce degli italiani sospenderà le pubblicazioni nell’estate del 1939. Saranno arrestati e internati diversi collaboratori del quotidiano, tra cui la giovane Anita Contini e Baldina Di Vittorio che così ricorderà i primi anni dell’esilio (il testo è tratto da Di Vittorio, letture, una breve ma completa antologia curata da Giovanni Rinaldi)

Non meraviglierà sapere che tutto nella nostra famiglia è stato dominato, condizionato , dalla scelta di vita di nostro padre. E quindi anche la nostra vita familiare, il nostro 'privato' come si direbbe oggi, è stato sempre subordinato alle esigenze della sua battaglia politica. Ma tutto ciò avveniva nel modo più semplice e naturale. Infatti, essendo nata nella famiglia di un militante rivoluzionario come mio padre e di una donna coraggiosa e consapevole come mia madre, anche le situazioni più impreviste e difficili apparivano ai miei occhi come del tutto naturali. Ma in realtà tutto era insolito: persino i nomi scelti con cura e con puntiglio da nostro padre per me e mio fratello erano fuori dal comune e indicativi del clima e dei tempi in cui vivevamo: Balda, perché dovevo essere coraggiosa e Vindice, ad esprimere la collera e insieme la volontà di una vittoria sul fascismo (…) Al nostro arrivo a Parigi provammo un senso di liberazione, di profondo sollievo: per un po' non avremmo avuto i fascisti alle calcagna, e comunque saremmo stati di nuovo tutti insieme. Il primo impatto con la città fu indimenticabile: papà portò tutta la famiglia a una grandiosa manifestazione di solidarietà per Sacco e Vanzetti. Ho ancora nelle orecchie lo slogan ripetuto con rabbia: 'Libérez Saccò-Vanzettì!' - 'Libérez Saccò-Vanzettì!'. Nei primi tempi andammo ad abitare verso il Père Lachaise in modestissimi alberghetti o in minuscoli meubles (piccoli e tristi appartamenti mobiliati) di infimo ordine, dove la pulizia era sconosciuta e dove si cucinava quasi di nascosto su un piccolo fornelletto di fortuna. In seguito i compagni ci procurarono appartamenti presi in affitto, sempre con documenti falsi, in zone più periferiche (…). Cominciò per noi un lungo periodo di vita illegale, tra mille difficoltà, sia per la necessità di abituarsi alla lingua francese, alla vita e al clima di Parigi (inadatto per la salute già compromessa di mia madre), sia per la lontananza da Cerignola, per la nostalgia profonda dell’Italia e il desiderio sempre vivissimo di rivedere familiari, vecchi amici e compagni. Eravamo spesso costretti a cambiare casa e ad assumere nomi sempre diversi. Dai documenti falsi papà risultava essere di volta in volta giornalista, dottore in agraria (ingenieur agronome), o altro. Vindice ed io ci dovemmo abituare rapidamente a non avere amici della nostra età, a non poter invitare a casa nostra per motivi cospirativi i compagni di scuola, a cambiare spesso scuola (…) Il lavoro di papà lo costringeva a compiere frequenti viaggi all’estero (convegni clandestini, riunioni, congressi) e in quelle lunghe attese vivevamo in duro isolamento. Questa situazione si ripeteva, del resto, ogni qualvolta papà veniva arrestato e espulso (refoule) dalla Francia. Con quale angoscia e patema d’animo per nostra madre si può facilmente immaginare.

“In quel periodo - continua Baldina - mio padre dirigeva il quotidiano degli antifascisti, La Voce degli italiani. Ero allora una giovanetta e partecipavo - nel poco tempo che mi lasciavano gli studi e la cura della casa, di Vindice e di papà - alle iniziative della nostra emigrazione, del nostro giornale, e alle campagne di solidarietà con la Spagna repubblicana attraverso la raccolta di latte per i bambini spagnoli e di medicinali. Il lavoro assorbiva papà completamente. Nel 1938 scriveva a sua madre e a sua sorella Stella: 'Sono occupato giorno e notte e in preda a tali preoccupazioni immediate e urgenti che mi tolgono il respiro...'. Era instancabile: oltre alla direzione del giornale partecipava a decine di riunioni e di comizi che andava facendo nelle zone dove particolarmente numerosi erano i lavoratori italiani emigrati. Qualche volta lo accompagnavo, altrimenti - seguendo una vecchia tradizione familiare - lo aspettavo sino a tarda sera (o notte), cenavo con lui e insieme conversavamo a lungo prima che io andassi a dormire e lui a lavorare per qualche ora ancora. È sempre stato così. Va anche detto che malgrado i suoi gravosi impegni papà mi aiutava - e la cosa non è poi così ovvia o frequente - nei lavori di casa: spesso mi dava una mano per cucinare o fare il bucato. Come si vede, la 'divisione dei ruoli' non è mai stato un problema nella nostra famiglia, anche se così tradizionalmente meridionale. (…) Spesso mi si chiede come ricordo mio padre. Tutti lo ricordiamo per la sua umanità, per il suo equilibrio: nessuno ha dimenticato come sapeva parlare ai vecchi lavoratori, ai pensionati, come sapeva trovare le parole giuste per rivolgersi agli agenti di polizia, 'nostri fratelli e figli del popolo', anche nei momenti in cui le lotte erano molto dure. Io lo ricordo anche per un’altra caratteristica: non si è mai dato per vinto; anche nelle situazioni più difficili (molti, gli episodi noti), nei momenti più bui (…)”.

Con la consapevolezza, non resta che da aggiungere, di servire una causa grande, una causa giusta. Una causa che “serve gli interessi di tutti, gli interessi dell’intera società, l’interesse dei nostri figliuoli.  Quando la causa è così alta, merita di essere servita, anche a costo di enormi sacrifici”. Ce l’ha insegnato - con l’esempio - il nostro Peppino, a noi il compito di non dimenticarlo.