Nel 1965 Fernando Santi dà l'addio alla Cgil, ai compagni e alle compagne presenti al sesto congresso della confederazione dice: "Questo congresso è l’ultima occasione che mi è offerta per intrattenermi con voi. E non mi è facile parlarvi, dar corso cioè in modo adeguato ai sentimenti che in questo istante si agitano in me. Siamo stati molti anni insieme, fin dal lontano 1947. Insieme abbiamo camminato per le strade difficili, lottato e sofferto. Comuni ci furono le amarezze degli insuccessi e le gioie delle vittorie. Comuni ci furono e comuni ci restano le grandi attese ideali. In questo giorno di commiato, reso necessario dal fatto che le mie condizioni fisiche non mi consentono di far fronte con pienezza di forze alle fatiche sempre più impegnative della direzione confederale, voglio dirvi soltanto alcune cose. Non intendo infatti intervenire nel dibattito congressuale, per un dovere di elementare correttezza".

"Non ho, d’altra parte, nessun testamento politico sindacale da affidarvi”, la sua precisazione. “Anche perché non sono morto, non intendo venire commemorato e tanto meno commemorarmi. Né posso, infine, presumere di prodigarvi esortazioni e insegnamenti particolari. Quel poco che benevolmente si dice e si dirà ancora per qualche giorno di me, per la mia attività alla Cgil in questi 18 anni che restano indimenticabili nella mia vita: il senso del dovere, la fedeltà alla causa dei lavoratori, l’attaccamento alla Cgil e all’unità sindacale e – aggiungo io – la stessa ansia e talvolta la disarmante certezza di sentirsi impari ai grandi compiti e alle alte responsabilità, lo devo sì alla mia fede di socialista e di sindacalista che mi accompagna dall’adolescenza, ma lo devo anche al vostro esempio, di voi che avete lavorato, lavorate, lavorerete in condizioni ben più difficili di quelle che si incontrano alla attività di direzione della Cgil”.

“La soddisfazione più grande - afferma Santi a chiusura del suo intervento - sarebbe quella di potere avere la certezza che un bracciante, un operaio, un lavoratore solo, nel corso di questi 18 anni abbia detto, pure una sola volta di me: è uno dei nostri, di lui ci possiamo fidare. Per potergli oggi rispondere: puoi fidarti ancora, compagno”.

Antifascista, deputato, segretario generale della Camera del lavoro di Milano su designazione del Comitato di liberazione nazionale, segretario generale aggiunto della Cgil, Santi morirà qualche anno dopo, il 15 settembre del 1969.

“Credo di essere tra i pochi italiani non socialisti - diceva Ferruccio Parri all’indomani della scomparsa - che hanno avuto parte nella vita pubblica ad aver fatto amicizia con Fernando Santi fin dalla sua giovinezza. E ora che leggo della morte crudele nella sua Parma, devo far forza alla profonda tristezza del momento per non dar la stura ai tanti ricordi che risorgono ancor vivi, perché scritti nella memoria del cuore, dagli anni lontani del suo primo tempo milanese. Ricordi giustamente indifferenti ai lettori perché non è da essi che vien fuori la calda umanità dell’amico, la vivacità del suo spirito sempre all’erta, il suo gusto del discorso schietto semplice e diretto”.

Il giorno dei suoi funerali, a rendere omaggio alla figura del sindacalista scomparso, ci saranno Luciano Lama (segretario confederale, non ancora generale della Cgil), Francesco De Martino, Pietro Nenni e Sandro Pertini che il 23 ottobre 1969 affermava:

“Onorevoli colleghi, raccogliamoci nel ricordo di Fernando Santi. (…) Egli, adolescente, aveva già preso il suo posto nel partito, nella sua Parma, sorretto da una fede vigorosa, da una viva intelligenza e dalla tenace devozione alla classe operaia, di cui sin da ragazzo aveva conosciuto per esperienza personale la grama esistenza fatta di stenti, di rinunzie. (…) Con quel ricordo della sua infanzia, che mai l’abbandonerà, partecipa alle lotte della rovente Parma d’oltre torrente. Ed è a fianco dei braccianti della bassa padana, a contatto con la miseria, ch’è stata la miseria sua, di suo padre e di sua madre, ch’egli si forma. Si getta nella lotta con assoluta dedizione e quale segretario della Camera del Lavoro diventa una guida sicura per la sua gente. (…) Conosce il carcere, l’ultima volta a San Vittore nel 1943. Coopera alla ricostruzione del partito socialista, ma per sfuggire ad un nuovo arresto si rifugia nella libera Svizzera. Nel 1944 partecipa all’insurrezione ossolana e alla costituzione di quella piccola repubblica sorta per volontà e virtù di popolo, primo faro di libertà acceso nell’Italia oppressa. Rientrato a Milano nell'aprile 1945 si getta nell’insurrezione. Il resto della sua vita di sindacalista, di parlamentare, di uomo di partito è a voi tutti noto perché io lo ricordi. (…) Bramava dire che così si era fatto alla scuola dei maestri di vita come Filippo Turati, Claudio Treves, Camillo Prampolini. Ed aveva ragione di affermare questo non solo per rivendicare un privilegio, ma anche per rispondere a chi con sufficienza definiva ‘romantici’ questi socialisti che come lui erano persuasi non potersi avere socialismo senza libertà. ‘Romantici’, uomini come Fernando Santi che con fermezza seppero battersi; che hanno sempre pagato di persona; che il partito hanno servito senza mai servirsene e che non consideravano la politica quale occasione propizia per ottenere poltrone e prebende, ma quale missione d’assolvere solo nell’interesse della classe lavoratrice e del paese. Così, proprio un ‘romantico’ come Fernando Santi rifiuta il Ministero del lavoro pur di non scendere a compromessi con la propria coscienza. (…) Riprendendo un brano d’un suo nobilissimo discorso, oggi quando si parla di Fernando Santi giustamente si dice: ‘Di lui ci potevamo fidare’. Ma di lui si potevano fidare non solo i compagni, i lavoratori, cui dedicò tutto se stesso, ma anche gli avversari. Perché Fernando Santi ha sempre combattuto a visiera alzata, lealmente”.

Così nell’aprile del 1965 lo storico vice segretario generale della Cgil rispondeva a un giovanissimo Giorgio Benvenuto: “Sindacalista come sei, hai compreso quanto il distacco dal sindacato abbia costituito per me un momento - come tu dici - amaro e doloroso. La mia pena è allietata dalla speranza che qualcosa lascio al movimento sindacale come esempio di disinteresse e di lealtà nei confronti della causa che ci è comune”.

“Nel 1965 - scriverà Bruno Trentin - al Congresso di Bologna, Santi chiedeva, lasciando la Cgil, che si potesse dire di lui: è uno dei nostri. Ecco, era ed è uno dei nostri; lo resta oggi più che mai ed è più che mai oggi una guida per l’avvenire del movimento sindacale italiano”.