Farmaci e vaccini per tutti: solo in questo modo si sconfigge il virus. Ma è così semplice? È solo una questione di tempo? In realtà no, perché produzione e commercializzazione sono protetti dai diritti proprietari che, considerando le regole che si è dato il Wto con gli accordi Trips, durano 20 anni. E se in particolari condizioni queste regole possono essere superate, tuttavia non è così semplice. Di questo nodo fondamentale abbiamo ragionato con Andrea Capocci, giornalista scientifico, che di questi temi scrive per il Manifesto . “La situazione è complessa - spiega Capocci -. È vero che per ora i vaccini costano relativamente poco, ma il prezzo oscilla parecchio: si va dall'euro di Astra Zeneca ai 30 di Moderna. Sono cifre che per i Paesi poveri non sono certo irrisorie ”.

Il problema dei costi e del proprietario del regime riguarda dunque solo questi paesI?

Certamente li riguarda in misura maggiore: sono quelli sui quali il problema della scarsa capacità produttiva e dell'innalzamento dei costi - e quindi dell'asta che avviene a livello internazionale - ha un impatto maggiore. Però il problema interessa anche Paesi come l'Italia. Mi spiego: sicuramente noi avremo più vaccini del Kenya, ma nonostante questo vediamo come la campagna vaccinale proceda lentamente per coprire una parte sostanziale della popolazione. Tutto ciò non è una variabile indipendente: questa situazione deriva dalle politiche delle aziende e dal regime di proprietà intellettuale dei brevetti. Se per ipotesi domani il Wto decidesse di derogare in questo caso ai brevetti, sarebbe più facile anche nei Paesi ricchi allargare la produzione.

Però Moderna ha detto che durante la pandemia non applicherà il brevetto sul proprio vaccino: chi vuole potrà copiarlo...

È vero, però bisogna ricordare che il brevetto è solo una parte di un processo produttivo che ha tanti colli di bottiglia. Medici senza frontiere ha spiegato bene che nella pratica dire solo “non applicherò il brevetto” non significa molto. La filiera di un prodotto farmaceutico è molto complessa: parte dalla materia prima, poi ci sono i segreti industriali, know how protetti da copyright, dati e  protocolli. Per questo Sudafrica e India hanno chiesto al Wto non solo di non applicare i brevetti ma tutti gli strumenti di proprietà intellettuale intorno al prodotto stesso.

E cosa pensano, a questo proposito, Usa e Ue?

Rispondono che significherebbe fare un grosso favore all'industria farmaceutica indiana che potrebbe sfruttare una situazione umanitaria per poter accedere a una tecnologia, copiarla, e poi conquistare fette di mercato. Bisogna ricordare che Il Serum Institute of India è la più grande azienda produttrice di vaccini nel mondo: copre già oggi il 60 per cento della produzione globale. Va però aggiunto che a Ovest i vaccini non interessano più di tanto. Nonostante i no vax parlino di multinazionali che vogliono inocularci il vaccino a tutti i costi, in realtà questi rappresentano una fetta molto piccola del business farmaceutico, poco innovativa e non troppo redditizia. Insomma, è tutto molto complesso.  Credo che però la proposta della moratoria, qualora venisse accettata, non solo avrebbe un impatto importante, ma rappresenterebbe anche un bel risultato dal punto di vista politico.

In che senso?

Nel senso che creerebbe un precedente. Tieni presente che questa discussione è stata fatta, più o meno negli stessi termini, per l’Aids. Se le questioni che sorgono in queste situazioni di crisi cominciano a diventare strutturali, magari si può iniziare a mettere in discussione l’intera regolamentazione dei brevetti a livello mondiale. Anche perché queste norme non sono incise nelle tavole della legge, anzi sono giovani: un accordo mondiale sui brevetti esiste solo dal 1994 e fino alla fine degli anni Settanta l’Italia non applicava i diritti di proprietà intellettuale sui farmaci. Eravamo al quinto posto al mondo nell’industria farmaceutica soprattutto grazie al fatto che producevamo tanti farmaci generici. Insomma l’idea che sia utile brevettare i farmaci è recente, ha creato nel tempo tanti problemi e spesso richiesto deroghe. Non è un fatto pacifico, anche se l’astoricismo del neoliberismo le fa passare per leggi naturali. Se non abolirli integralmente si possono pensare ad aggiustamenti nella durata dei brevetti, introducendo limitazioni più ampie o distinguendo per tipologie di farmaci. 

Sei d’accordo con chi rivendica il tema del “vaccino bene comune”? Visto che spesso è stato pagato con soldi pubblici, dovrebbe essere gratis per tutti sempre, anche in futuro...

È una questione apertissima, soprattutto nei Paesi ricchi. E io sono d’accordo. Negli Usa ad esempio, che sono quelli che più hanno investito, il vaccino Moderna è stato possibile grazie ai massicci investimenti pubblici. Anche in Europa ci sono stati forti investimenti pubblici. Tieni conto che c’è anche un modo indiretto di finanziare i vaccini: oltre a quello diretto, c’è l’acquisto massiccio di dosi da parte dei governi. Un modo per limitare drasticamente il rischio d’impresa che in questo settore è molto forte e che garantisce almeno che gli investimenti fatti dalle aziende nella ricerca non andranno perduti. Se abbiamo tanti vaccini in Europa è perché i singoli Paesi hanno acquistato tante dosi. L’importanza di un vaccino bene comune, però, non riguarda solo la sfera etica, ma anche ragioni sanitarie: come spiega uno studio di Alessandro Vespignani, se le dosi fossero distribuite tra i diversi Paesi sulla base della popolazione e non su quella del reddito il numero totale di morti sarebbe dimezzato. Il modo in cui dividi la torta, come sanno bene gli economisti, determina quanto è grande la torta stessa. Il virus non si ferma alle frontiere e non ci si protegge da soli. Finché c’è qualcuno che non è protetto, il virus continua a circolare. 

Qual è il ruolo dell’Italia in questa “corsa” al vaccino?

Sui vaccini l’Italia non ha un ruolo di chissà quale importanza. Le nostre aziende operano per lo più in una posizione di subfornitura nella catena del valore; penso all’infialettamento dei vaccini ad Anagni o all’Irbm di Pomezia. Va però ribadito che questi vaccini sono soprattutto biotecnologici. Il lavoro di sviluppo non richiede enormi investimenti, poiché un po’ tutti sfruttano piattaforme vaccinali comuni. È il motivo per cui un’azienda che non è certo una multinazionale come Moderna ha sviluppato un suo vaccino. Stesso discorso per il vaccino italiano su cui sta lavorando Reithera. Il nazionalismo vaccinale non mi interessa, però certamente un impatto, anche indiretto, questo fatto potrà comunque averlo: forse avremo meno pressione nel comprarne dosi da altri, magari da Moderna. Tuttavia non bisogna scambiare l’eventuale successo di Reithera come un successo dovuto agli investimenti pubblici italiani in ricerca, perché su questo versante, come è noto, stiamo da tempo messi male.