Dichiarava Benito Mussolini in un’intervista a Le Journal il 14 novembre 1922: “C’è chi dice che intendo limitare il diritto di voto. No! Ogni cittadino manterrà il suo diritto di voto per il parlamento di Roma … Consentitemi anche di ammettere che non credo estendere il diritto di voto alle donne. Sarebbe inutile” (“La donna deve obbedire - aggiungerà dieci anni più tardi il duce - La mia opinione della sua parte nello Stato è in opposizione ad ogni femminismo. Naturalmente essa non dev’essere una schiava, ma se io le concedessi il diritto elettorale mi si deriderebbe. Nel nostro Stato essa non deve contare”).

In parte contraddicendo il suo capo, il 22 novembre 1925 il fascismo faceva entrare in vigore la legge n. 2125 (nota come “il voto delle signore”) che per la prima volta rendeva le italiane elettrici in ambito amministrativo. Questa legge fu però resa inutile dalla riforma podestarile entrata in vigore pochi mesi dopo e precisamente in data 4 febbraio 1926: così ogni elettorato amministrativo locale veniva annullato, si sostituiva al sindaco il podestà che insieme ai consiglieri comunali non era eletto dal popolo, ma dal governo. Bisognerà attendere la fine della parentesi fascista ed il ritorno della democrazia perché l’elettorato sia riconosciuto anche alle donne.

Con il regio decreto 2480 del 9 dicembre 1926 le donne saranno escluse dalle cattedre di lettere e filosofia nei licei, verranno tolte loro alcune materie negli istituti tecnici e nelle scuole medie, si vieterà loro di essere nominate dirigenti o presidi di istituto (già il regio decreto 1054 del 6 maggio  1923 - riforma Gentile - vietava alle donne la direzione delle scuole medie e secondarie.  Per estirpare il male veramente alla radice, saranno raddoppiate le tasse scolastiche alle studentesse, scoraggiando così le famiglie a farle studiare).

Una legge del 1934 (legge 221) limiterà notevolmente le assunzioni femminili, stabilendo sin dai bandi di concorso l’esclusione delle donne o riservando loro pochi posti, mentre un decreto legge del 5 settembre 1938 fisserà un limite del 10% all’impiego di personale femminile negli uffici pubblici e privati. L’anno successivo, il regio decreto n. 989/1939 preciserà addirittura quali impieghi statali potessero essere alle donne assegnati: servizi di dattilografia, telefonia, stenografia, servizi di raccolta e prima elaborazione di dati statistici; servizi di formazione e tenuta di schedari; servizi di lavorazione, stamperia, verifica, classificazione, contazione e controllo dei biglietti di Stato e di banca, servizi di biblioteca e di segreteria dei Regi istituti medi d'istruzione classica e magistrale; servizi delle addette a speciali lavorazioni presso la Regia zecca. L’articolo 4 della stessa legge, suggerirà altri impieghi “particolarmente adatti” alle donne: annunciatrici addette alle stazioni radiofoniche; cassiere (limitatamente alle aziende con meno di 10 impiegati); addette alla vendita di articoli di abbigliamento femminile, articoli di abbigliamento infantile, articoli casalinghi, articoli di regalo, giocattoli, articoli di profumeria, generi dolciari, fiori, articoli sanitari e femminili, macchine da cucire; addette agli spacci rurali cooperativi dei prodotti dell’alimentazione, limitatamente alle aziende con meno di dieci impiegati; sorveglianti negli allevamenti bacologici ed avicoli; direttrici dei laboratori di moda.

Le donne, insomma, devono rimanere a casa

Del resto lo stesso pontefice Pio XI, con l’Enciclica Quadragesimo Anno, condannava nel maggio 1931 il lavoro delle donne fuori dalle mura domestiche: “Così, traviando dal retto sentiero i dirigenti della economia, fu naturale che anche il volgo degli operai venisse precipitando nello stesso abisso, e ciò tanto più che molti sovraintendenti delle officine sfruttavano i loro operai, come semplici macchine, senza curarsi delle loro anime, anzi neppure pensando ai loro interessi superiori. E in verità fa orrore il considerare i gravissimi pericoli a cui sono esposti nelle moderne officine i costumi degli operai (dei giovani specialmente) e il pudore delle giovani e delle donne, gli impedimenti che spesso il presente ordinamento economico e soprattutto le condizioni affatto irrazionali dell’abitazione recano all’unione e alla intimità della vita di famiglia; alle difficoltà di santificare debitamente i giorni di festa (…) È bensì giusto che anche il resto della famiglia, ciascuno secondo le sue forze, contribuisca al comune sostentamento, come già si vede in pratica specialmente nelle famiglie dei contadini, e anche in molte di quelle degli artigiani e dei piccoli commercianti; ma non bisogna che si abusi dell’età dei fanciulli né della debolezza della donna. Le madri di famiglia prestino l’opera loro in casa sopra tutto o nelle vicinanze della casa, attendendo alle faccende domestiche. Che poi le madri di famiglia, per la scarsezza del salario del padre, siano costrette ad esercitare un’arte lucrativa fuori delle pareti domestiche, trascurando così le incombenze e i doveri loro propri, e particolarmente la cura e l’educazione dei loro bambini, è un pessimo disordine, che si deve con ogni sforzo eliminare”.

Dal sacro al profano scriverà qualche anno dopo Ferdinando Loffredo nella sua Politica della famiglia (1938): “Il lavoro femminile (…) crea nel contempo due danni: la 'mascolinizzazione' della donna e l’aumento della disoccupazione maschile. La donna che lavora si avvia alla sterilità; perde la fiducia nell’uomo; concorre sempre di più ad elevare il tenore di vita delle varie classi sociali; considera la maternità come un impedimento, un ostacolo, una catena; se sposa difficilmente riesce ad andare d’accordo col marito (…); concorre alla corruzione dei costumi; in sintesi, inquina la vita della stirpe”.

Similmente affermava Benito Mussolini su Il Popolo d’Italia del 31 agosto 1934 : “L’esodo delle donne dal campo di lavoro avrebbe senza dubbio una ripercussione economica su molte famiglie, ma una legione di uomini solleverebbe la fronte umiliata e un numero centuplicato di famiglie nuove entrerebbero di colpo nella vita nazionale. Bisogna convincersi che lo stesso lavoro che causa nella donna la perdita degli attributi generativi, porta all’uomo una fortissima virilità fisica e morale”.

Aggiungeva Giovanni Gentile ne La donna nella coscienza moderna (1934): “La donna non desidera più i diritti per cui lottava (…) (si torna) alla sana concezione della donna che è donna e non è uomo, col suo limite e quindi col suo valore (…). Nella famiglia la donna è del marito, ed è quel che è in quanto è di lui”.

Sempre per la serie “hanno fatto anche cose buone”…