Le risorse messe a disposizione dalla Commissione europea non sono sufficienti, anche perché non si sa ancora come verranno gestiti i 100 miliardi annunciati. Il vantaggio è che il prestito avrà un tasso d’interesse molto basso e l’utilizzo di queste risorse non sarà sottoposto a meccanismi di condizionalità, se non a politiche per il lavoro, ma non a quelle di austerità. “La questione è saltare i paletti del patto di stabilità – ci spiega Michele Raitano, economista e docente all’’Università La Sapienza di Roma -. Per i Paesi come l’Italia puoi concedere di emettere debito a dismisura, ma il problema successivo è vendere sul mercato i titoli di debito pubblico (come accadde nel 2011), perché basta qualsiasi volatilità o crisi di sfiducia per provocare una crisi di liquidità che prefigurerebbe scenari greci”. Ulteriore rischio consiste nell’instabilità politica alla quale l’Italia è da sempre avvezza e, a questo proposito, Raitano ricorda che appena prima dell’esplosione della pandemia la maggioranza di governo sembrava avere i giorni contati e anche ora le fibrillazioni interne non mancano. 

L’economista spiega quindi i meccanismi che portano a rischi per il nostro paese: “Se si emette un debito molto alto, generalmente poi si stampa moneta, ma noi siamo in un’unione monetaria e quindi non è possibile farlo, quindi si aumenta il disavanzo e lo si mette a debito. Il debito cresce di conseguenza in modo enorme, si riducono le entrate e contemporaneamente bisogna spendere le risorse, in questo modo diminuisce il Pil e, in questa situazione, si potrebbe arrivare anche a una perdita del 10 percento del Pil, visto che i tempi della pandemia non sono certi”. L’esplosione del debito all’interno di un’area euro non solidale costringere a ricorre ai mercati e a chiedere un rifinanziamento continuo, con l’innalzamento conseguente dello spread e la possibilità di un grave avvitamento.

“Per fare fronte a questi rischi - prosegue l’economista - il meccanismo Sure (il finanziamento delle politiche nazionali di supporto al reddito dei Paesi più colpiti dall'emergenza Covid-19, ndr) è un minimissmo primo passo pensato per concedere agli Stati la possibilità di indebitarsi senza però dovere sottostare ai mercati finanziati per il costo del debito. Però il passo è minimo, perché le misure hanno costi nettamente superiori per il bilancio pubblico rispetto a quello che potremo ottenere. Non sono ancora chiare le condizioni che saranno fissate per l’accordo sul prestito: è chiaro che non ci sarà una troika ad imporci che si andrà in pensione a 90 anni con 200 euro di assegno, ma gli accordi politici avranno un minimo di condizionalità. Non dimentichiamoci che l’Italia, dal ’92 in poi (fatti salvi forse un paio di anni) il bilancio primario è in attivo e bisogna uscire dal luogo comune che il nostro Paese vive al di sopra delle proprie possibilità. Quello che conta per capire la direzione politica fiscale è il bilancio primario, vale a dire le spese meno le entrate, al netto senza la spesa del debito passato, e a noi entra più di quanto spendiamo”. Quanto al dibattito sui Coronabond, Raitano dubita che le autorità europee riusciranno a intervenire con questo strumento, però nella situazione attuale, se la Bce monetizzasse, ci potrebbe essere solamente un rischio di inflazione, mentre il terrore vero è invece la deflazione. 

Sull’idea di un nuovo piano Marshall, il docente della Sapienza è dell’opinione che, partendo dall’idea che questo shock improvviso potrebbe portare a rivedere una serie di luoghi comuni, “si dovrebbe riprendere in considerazione la funzione dell’intervento pubblico in economia e capire che non si è virtuosi se si taglia la spesa per le pensioni o si lascia spazio a forme lavorative delle più estese per ridurre il costo del lavoro. Nonostante il governo abbia messo in campo misure degnissime sulla cassa integrazione estesa per tutti, ormai non si riesce a coprire l’intera platea dei lavoratori che ne hanno bisogno. Sino ad ora ci si è mossi verso la flessibilizzazione dei contratti di lavoro e la riduzione dell’intervento pubblico, con l’esito di una riduzione della capacità produttiva autonoma dello Stato (lo abbiamo visto con quanto accaduto con mascherine e guanti). Contemporaneamente c’è stata anche la revisione del sistema sanitario nazionale, con le differenze che abbiamo visto tra regioni come Lombardia e Veneto. Tutto ciò qualche lampadina dovrebbe accendersi. Quindi, ben venga un piano Marshall se vuole dire pensare a un grosso programma di investimenti pubblici in settori colpevolmente trascurati, ma la cosa è diversa se invece vuole dire che per tirare a campare ci facciamo legare mani e piedi da benefattori esterni (che benefattori poi non sono). Con la crisi dei debiti sovrani si è andati ancor di più contro intervento pubblico e il decreto Salva Italia, ricordiamolo, ha avuto come unica politica pensabile quella dei tagli del sistema pubblico e dell’austerità”. 

Torna poi in campo il rapporto tra finanza ed economia reale, perché diventa sempre più necessario avere una visione di lungo periodo, caratteristica che non appartiene certo al mondo finanziario, di sua natura speculativo, quindi con una visione di brevissimo periodo che si scontra con la logica dell’intervento pubblico. “Dobbiamo pensare che il mercato lasciato a se stesso non produce beni per la collettività - dice l’economista - mentre ci sono produzioni strategiche devono essere mantenute. Le politiche di lungo periodo guardano alle esigenze e ai bisogni dei cittadini, al loro futuro. Lo stesso vale per il mercato del lavoro, perché anziché campare sull’oggi abbassando il costo del lavoro e insieme riducendo i diritti, bisogna pensare a sistemi che tutelino maggiormente tutti quanti. In questo senso l’incertezza politica diventa clamorosa: se si va continuamente a elezioni (politiche e amministrative), tutti gli interessi sono schiacciati sul brevissimo periodo per interesse elettorale, al contrario bisogna necessariamente fare coincidere i tempi della politica con gli obiettivi di lungo periodo”. 

Venendo poi strettamente ai temi del lavoro, della precarizzazione, del sommerso, nero o grigio che sia, gli interventi emergenziali ai quali stiamo assistendo devono necessariamente sfociare in un ripensamento delle regole e a un welfare che sia a garanzia dell’intera comunità. Raitano spiega che “sino a ora ai lavoratori autonomi è stato applicato un modello basato sulla logica del ‘paghi meno tasse, ti controllo meno, però qualunque rischio è a carico tuo’, quindi ora è necessario fare un intervento su questo settore. Lo stesso per il lavoro part time, che diventa full time con le ore pagate fuori busta, e per il lavoro nero. Il dramma è come ripartire, perché se non hai una spinta forte della domanda, il rischio è che si ricominci con lavori molto precari e saltuari. In questo senso il tanto discusso reddito di cittadinanza, se rivisto, può avere un effetto positivo, perché in questa emergenza darebbe la possibilità a chi lavora in nero di iniziare un percorso che renderà più difficile il ritorno nell’economia sommersa. Sono necessarie politiche più ampie a sostegno del reddito, di lungo periodo, su base individuale, tutelando gli autonomi e andando verso la cancellazione dei contratti atipici”.