In Veneto i contagi da Coronavirus sono saliti a 3.751: 267 in più rispetto a giovedì 19 marzo. Anche i morti aumentano e arrivano a 130, 15 più di ieri. In terapia intensiva sono ricoverati 224 pazienti, in questo caso l’incremento è di 15 persone. Dal 21 febbraio sono 221 le persone dimesse. È il bollettino che tutte le sere attendiamo con ansia, nella speranza di constatare che il virus stia cominciando ad allentare la presa. Ma purtroppo ancora non è così. Proprio per questo per Christian Ferrari, segretario generale della Cgil del Veneto, la prima preoccupazione, in questo momento, è quella di fare in modo che la rete dei presìdi sanitari regga. D’altro canto tutelare cittadini e lavoratori oggi è la premessa perché, quando tutto sarà finito, la ripresa economica sia possibile.

Il contagio non accenna a fermarsi, purtroppo…

È così. Non siamo al livello della Lombardia, ma ci stiamo avvicinando rapidamente a una pressione insostenibile e a una saturazione dei nostri presìdi sanitari.

In questi giorni Zaia ha lanciato la proposta di adottare un modello coreano per controllare gli spostamenti delle persone. Cosa ne pensi?

Guarda, ho deciso di non replicare alle dichiarazioni estemporanee del presidente della Regione, anche perché la loro coerenza è abbastanza approssimativa. Con messaggi contraddittori lanciati a giorni alterni: un giorno bisogna eliminare le zone rosse per far ripartire l’economia, un altro dobbiamo stare tutti a casa perché altrimenti si arriverebbe a due milioni di contagi. In ogni caso, ammesso e non concesso che il metodo coreano sia accettabile, si tratta di strategie che non possono essere messe in piedi in pochi giorni e in piena emergenza sanitaria. Comunque non è il momento questo per fare polemiche. Dopo però, quando tutto sarà passato, su alcune cose bisognerà riflettere, a partire dall’autonomia differenziata. È evidente che quello di cui abbiamo bisogno è l’opposto: un governo nazionale della sanità.

Qual è la situazione in regione?

La questione su cui ora bisogna concentrarsi è come fornire risorse umane e finanziarie e protezioni adeguate a chi opera su quella che è diventata la nostra linea del Piave: la sanità. Sono loro, mi si passi la metafora bellica, i nostri soldati in trincea: medici, infermieri, operatori devono essere messi in condizione di lavorare al meglio.

Avete anche denunciato una situazione molto difficile nelle strutture per gli anziani...

Certo: Ipab e Rsa stanno diventando delle bombe sanitarie. Nella casa di riposo di Merlara, in provincia di Padova, sono tutti contagiati e gli operatori lavorano ininterrottamente rischiando la vita per assistere le persone. Il nostro deve essere un messaggio accorato: dobbiamo stare a casa non solo per proteggere noi stessi ma anche e soprattutto la parte più fragile della nostra popolazione.

In quali settori state riscontrando le ricadute economiche più dirompenti di questa epidemia?

Ovviamente il disastro è cominciato dal turismo che è stato praticamente raso al suolo a partire dal 18 febbraio. Considera che in Italia siamo la prima regione nel settore: 80 milioni di presenze l’anno, 18 miliardi di fatturato, cioè il 10 per cento del Pil regionale. Anche se per miracolo i contagi finissero domani, il comparto ha subìto un colpo mortale. Naturalmente a cascata ormai la crisi ha toccato tutti gli altri settori che stanno progressivamente rallentando in maniera molto sostenuta: meccanica, legno, arredo, tessile-moda, i cantieri dell’edilizia privata che l’Ance ha sospeso per 15 giorni.

Lo stop delle aziende però in molti casi è giusto, per tutelare i lavoratori e non accelerare il contagio...

Certamente. Il protocollo nazionale siglato nei giorni scorsi tra le parti sociali e che stabilisce misure e condizioni di sicurezza per le aziende che vanno avanti con la produzione è molto importante. Considera che sulla scorta di quello ne abbiamo firmato uno con la Regione Veneto che lo rafforza e coinvolge la stessa Regione in un ruolo attivo di sorveglianza attraverso le ispezioni nelle imprese. E questo in effetti sta accadendo, soprattutto ovviamente in quelle di dimensioni maggiori. In aggiunta abbiamo siglato con le aziende centinaia di accordi per la sospensione o il rallentamento dell’attività. In altri casi abbiamo anche scioperato. Quello che vogliamo far capire agli imprenditori – e qualcuno purtroppo non lo capisce – è che, al di là dei protocolli e dei nostri scioperi, se non ci si mette in sicurezza e si decide di andare a sbattere contro al muro, poi dopo sarà molto difficile ripartire. Insomma: le ragioni per agire sono non solo morali, ma anche economiche.

In ogni caso molte realtà produttive si stanno fermando proprio per il rallentamento dell’economia. È il virus insomma a bloccarle...

Esattamente. Il complessivo blocco economico sul lato dell’offerta e della domanda in un contesto come quello Veneto fortemente votato all’export sta producendo una situazione per cui resistono sempre più solo le attività legate alla produzione di servizi e beni essenziali e quelle che soddisfano una domanda interna di base. E questo accade naturalmente, a prescindere dalle decisioni politiche, aziendali e dell’attività dei sindacati. Il motore dell’economia sta decelerando, al netto di quelle filiere produttive a cui è affidata la tenuta sociale delle nostre comunità.

Ed è a proteggere questi lavoratori, allora, che bisogna pensare...

È la nostra preoccupazione maggiore. E purtroppo la situazione è difficile: mancano mascherine, guanti, disinfettanti, occhiali. Questa è la nostra priorità: tutelare e proteggere quei lavoratori che non hanno nemmeno la possibilità di utilizzare gli ammortizzatori sociali per stare a casa o scioperare.