La crisi del Covid alimenta le disuguaglianze salariali globali
Financial Times, 3 dicembre 2020

Secondo l’Organizzazione internazionale del lavoro i lavoratori peggio retribuiti, in modo sproporzionato le donne, sono stati i più colpiti dalla perdita di ore di lavoro

Per leggere l'articolo originale: Covid crisis fuels global wage inequality

 

Come le donne "invisibili" del Pakistan hanno conquistato i diritti dei lavoratori: "Spostando le montagne"
The Guardian ,1° dicembre 2020

Le lavoratrici a domicilio della provincia di Sindh festeggiano la conquista delle nuove prestazioni in materia di previdenza sociale, dopo che gli sono stati negati i finanziamenti/sussidi nel lockdown

Shamim Bano è stata una lavoratrice invisibile per 40 anni. Lavorava 12 ore al giorno da casa come tagliatrice di tessuti nella città portuale di Karachi, tagliava i fili sciolti dei vestiti per costruire samosas da vendere nelle scuole.
Bano riceve circa 25 rupie pakistane al giorno. È un'esistenza precaria quella delle lavoratrici a domicilio in Pakistan, non hanno accesso alle prestazioni di sicurezza sociale o alla pensione. La maggior parte di questi lavoratori informali sono donne.
Ma ora Bano è diventata visibile, è la prima persona ad essersi registrata in base a quanto disposto dalla nuova legge che riconosce finalmente il suo lavoro. La provincia del Sindh sta per varare una legge che assegnerà i diritti dei lavoratori a una forza lavoro informale di 3 milioni di persone.
Nel 2018 la provincia di Sindh approvò la legge sui lavoratori a domicilio, rendendo il Pakistan l'unico paese dell'Asia meridionale dove i lavoratori a domicilio sono stati riconosciuti come lavoratori legali. Sebbene le altre tre province del paese non abbiano ancora seguito l'esempio, si ritiene che lavorino a domicilio 12 milioni di persone in tutto il Pakistan, producendo dai loro salotti vestiti, scarpe e prodotti artigianali.
Circa l'80% di loro sono donne. È considerevole il contributo che danno all'economia. Secondo l’indagine sulla forza lavoro per il 2017- 2018, il settore informale rappresenta il 71% dell'occupazione in Pakistan, senza tener conto dell'agricoltura. Nelle zone rurali il 75% delle persone sono lavoratori informali.
Nel fatiscente ufficio di una sola stanza del sindacato dei lavoratori a domicilio del settore dell'abbigliamento domestico di Karachi, lo United Home-Based Garment Workers’ Union, Bano è diventata, la scorsa settimana, la prima lavoratrice a domicilio della provincia di Sindh a registrarsi presso il dipartimento del lavoro del governo provinciale. Ora avrà diritto alle prestazioni sociali, sanitarie e di maternità e potrà anche beneficiare dei sussidi statali che l'aiuteranno a pagare matrimoni e funerali.
"Non so quando potrò effettivamente godermi i benefici, ma sono soddisfatta di essere stata in prima linea nella lotta”, dice Bano, che vive con suo marito, due figlie, un figlio, una nuora e tre nipoti. "Essere arrivata a questo punto vuol dire che sono stata in grado di aiutare tante altre donne, comprese le mie figlie, ad avere un futuro, è meglio che ... avere questo diritto per sé stessi."
La strada per arrivare dove sono è stata lunga. La Federazione delle lavoratrici a domicilio (Hbwwf) ha lottato dal 2009 per le sue 3.500 iscritte per rivendicare le prestazioni di sicurezza sociale e per un salario di sussistenza.
Zehra Khan, segretaria generale della federazione sindacale, ha detto che la registrazione “storica” in base a quanto disposto dalla nuova legge ha dimostrato che “quando i lavoratori separati, soprattutto le donne, si organizzano, possono spostare le montagne e combattere l'avidità capitalista”.
Khan ha aggiunto che il processo di registrazione fornisce un'immagine fedele del numero di lavoratori a domicilio.
Saira Feroze, 36 anni, segretaria generale di un sindacato che appartiene alla federazione, ha detto mentre compilava il modulo di registrazione, che non mai pensato che “saremmo stati riconosciuti come lavoratori nella nostra vita", questo sembrava "un sogno lontano”.
Il processo di registrazione doveva iniziare ad agosto, ma le restrizioni del Covid-19 hanno ritardato il lancio ufficiale. Ora il sindacato di Feroze sta cercando di recuperare il tempo perduto. "Ora ci stiamo impegnando ad iniziare da dove siamo arrivate, compilare i moduli e consegnarli al dipartimento del lavoro".
Aver ritardato la registrazione ha significato che le donne che lavoravano a domicilio non hanno il diritto a ricevere i pagamenti in contanti per l'emergenza nell'ambito del programma adottata dal governo durante il lockdown del Covid-19, che ha avuto un enorme impatto sui lavoratori a domicilio.
Il marito di Bano ha perso durante il lockdown il sostentamento vendendo cibo di strada in un chiosco.
Sumera Azeem, figlia di Bano, dice: "Non c'è lavoro". “Abbiamo dovuto chiedere un prestito per poter acquistare generi alimentari. Non paghiamo l'affitto mensile della casa di 7.000 rupie da aprile, né le bollette di elettricità e del gas ". Zahida Perveen, presidente dell'Hbwwf, ha detto che molti lavoratori a domicilio vivevano già alla giornata quando la città si era fermata a marzo. "La seconda ondata di Covid-19 è alle porte e con l'inflazione alimentare che ha raggiunto il picco, dubito che possiamo fare affidamento sull'aiuto di questo governo". "Se il processo di registrazione non fosse stato ritardato, molti di noi avrebbero potuto avvalersi dei pagamenti in contanti per l'emergenza decisi dal governo ".

 Per leggere l'articolo originale: ‘Moving mountains’: How Pakistan’s ‘invisible’ women won workers’ rights

 

La squadra economica di Biden suggerisce di concentrarsi sui lavoratori e sull’uguaglianza dei redditi
The New York Times, 1° dicembre 2020

Alla Casa Bianca e non solo, le nomine del presidente eletto sono piene di economisti del lavoro e di sostenitori del sindacato

Per leggere l'articolo originale: Biden’s Economic Team Suggests Focus on Workers and Income Equality

 

“Siamo contadini indiani, non terroristi”
Le Monde, 1° dicembre 2020

Migliaia di agricoltori minacciano di bloccare gli approvvigionamenti alla città di Delhi per protestare contro la liberalizzazione dei mercati imposta dal governo

Migliaia di contadini indiani arrabbiati si sono ammassati alle porte della città di Delhi, bloccati ai due valichi di frontiera tra lo Stato di Haryana e la capitale indiana, determinati a tagliare gli approvvigionamenti alla città bloccando le strade di accesso.
Il corteo dei contadini si estende per diversi chilometri. La maggior parte di loro proviene dal Punjab, il granaio di riso e grano dell’India, dove è in atto la ribellione da tre mesi. Un esercito di contadini anziani sikh con i capelli raccolti nei turbanti colorati, i baffi e la barba lunga, si è attrezzato per affrontare la protesta di diversi mesi. Dietro i loro trattori, ci sono rimorchi pieni di pentole e viveri, di riso, di cipolle, di lenticchie, di farina e di paglia sulla quale dormire. “Resteremo qui finché il governo non ritirerà le leggi che uccidono i contadini”, grida un contadino del Punjab, proprietario di due ettari di terra, che ha percorso quattrocento chilometri in trattore per raggiungere Delhi.
Il governo di Narenda Modi li ha ignorati per lungo tempo. Il 20 settembre, ha fatto passare in Parlamento tre testi di legge che hanno liberalizzato la vendita dei prodotti agricoli, senza alcuna consultazione iniziale sui testi di legge con il mondo agricolo, e né con i responsabili regionali. Secondo la riforma approvata, i contadini sono d’ora in poi liberi di vendere i prodotti ad un acquirente al prezzo che decideranno e non più solo ai mercati regolamentati dallo Stato (“mandis”) con prezzi fissi, come avveniva. Questo sistema di vendita permetteva al governo di avere scorte strategiche, soprattutto di riso e di grano, che poi venivano redistribuite con prezzi bassi ai poveri e garantivano ai produttori un reddito dignitoso.
Il dialogo con il governo è bloccato. Un incontro tra i sindacati e gli agricoltori a metà novembre non ha dato frutti. Un altro incontro con il ministro dell’agricoltura è previsto il 3 dicembre. I contadini si sono attivati il 26 novembre, rispondendo all’appello dei sindacati alla campagna denominata “Dilli Chalo”, “la marcia verso Delhi”. Il corteo dei contadini del Punjab si è ingrandito, si sono uniti i contadini dell’Haryana, dell’Uttarakhand, dell’Uttar Pradesh, ma lungo il cammino sono stati fermati con violenza dalla polizia, che ha utilizzato gas lacrimogeni e idranti. La polizia ha persino chiesto al capo del governo a Delhi il permesso di utilizzare gli stadi di cricket della capitale come prigioni temporanee per tenerci i manifestanti. Arvind Kejriwal, parlamentare di centro, si è opposto alla richiesta ed ha preso le difese dei contadini. Ha scritto sui social media: “Invece di ritirare le leggi contro i contadini, si impedisce agli agricoltori di organizzare manifestazioni pacifiche. Si utilizzano contro di loro idranti. Manifestare pacificamente è un diritto costituzionale”.
Ore di scontri
Venerdì, dopo ore di scontri, il governo ha alla fine proposto di concedere loro un pezzo di terra al Sant Nirankari Park, a nord di Delhi. La proposta è stata accettata soltanto da un centinaio di contadini, a volte costretti dalla polizia. Il campo, un immenso terreno desolato era quasi vuoto domenica. Sono state montate delle tende, è stata portata l’elettricità, sono state installate cucine, dove gli uomini preparano i chapatis (pane) e il dhal di lenticchie, ma per una manciata di persone.
I contadini fermi alle porte di Delhi dicono che non andranno a Sant Nirankari. “Restermo qui, non andremo nella prigione all’aperto”, hanno dichiarato in una conferenza stampa, consapevoli di imporre un rapporto di forza più grande con il blocco delle strade della capitale. “Siamo contadini indiani, non terroristi”, si legge nei cartelloni issati dagli uomini arrabbiati.
Da mesi i contadini del Punjab manifestano, accampati lungo le strade e le rotaie della ferrovia per denunciare l’apertura del mercato ai privati. Temono di essere strangolati dalle grandi aziende della distribuzione che acquisteranno direttamente da loro i prodotti e si rivolgono in particolare a Mukesh Ambani, il proprietario di Reliance, e a Gautam Adani, due miliardari vicini a Narenda Modi. Nonostante la mobilitazione dei contadini, il governo non ha ascoltato le preoccupazioni espresse dai contadini, continuando a ribadire che la legge permetterà di stimolare la produzione grazie agli investimenti privati. Narenda Modi ha ribadito la tesi, domenica, durante il suo discorso radiofonico mensile, tenuto in occasione del Maan Ki Baat.
La situazione è diventata talmente tesa che il ministro degli Interni, Amit Shah, il ministro più vicino a Modi, ha inviato una lettera ai manifestanti nella quale ha proposto di discuterne a condizione che raggiungano il campo di Sant Nirankari. La risposta delle organizzazioni agricole è stata pungente: “Non rientra nelle competenze del ministro degli Interni”. I sindacati chiedono un “incontro di livello più alto” con ministri “competenti” che hanno il mandato di assumere decisioni.
Strategia della tensione
Questa nuova rivolta sottolinea sia la crisi strutturale che vivono i contadini e sia la mancanza di empatia e di dialogo del governo Modi, che aveva promesso durante la campagna elettorale del 2014 che avrebbe raddoppiato il loro reddito entro il 2022. Gli agricoltori rappresentano circa la metà della popolazione, 650 milioni di indiani, ma soltanto il 14% del Pil. Possiedono appezzamenti di terra sempre più piccoli e sono sempre più indebitati sotto la pressione di un sistema produttivo intensivo frutto della “rivoluzione verde” degli anni ’70. I contadini chiedono la revoca dei tre testi di legge approvati il 20 settembre. Ma è improbabile che il governo torni indietro. Da quando Modi è stato rieletto nel 2019, ha fatto leva sulla strategia della tensione, esacerbando gli antagonismi per screditare gli oppositori della riforma. Nel dicembre del 2019, una legge che attribuisce la cittadinanza indiana ai rifugiati musulmani aveva creato in tutto il paese un movimento di protesta di dimensioni mai viste prima. Gli indiani sono scesi nelle strade per mesi e la contestazione si è fermata con l’arrivo del Covid-19 e il confinamento generale ordinato dal primo ministro.

Per leggere l'articolo integrale: «Nous sommes des paysans indiens, pas des terroristes»

 

Questo Black Friday, una coalizione mondiale chiede conto ad Amazon del suo operato
The Guardian, 27 novembre 2020

La società di Jeff Bezos ha realizzato enormi profitti, ma ad un costo enorme per i lavoratori e per il pianeta. Basta: #MakeAmazonPay

È ritornato il Black Friday, e gli affari pullulano. Con i lockdown diffusi che impediscono affollamenti nei negozi di mattoni, le vendite online sono destinate a registrare un'impennata. Soprattutto un commerciante ne trarrà grande profitto: l'amministratore delegato di Amazon, Jeff Bezos, l'uomo più ricco al mondo, al comando di una delle società più potenti al mondo.
Ma il Black Friday di quest'anno non solo è un'opportunità per Bezos di realizzare profitti straordinari a causa della pandemia, ma segna la nascita di un nuovo movimento globale che unisce i lavoratori dei magazzini, gli ambientalisti e i sostenitori della giustizia razziale, della giustizia fiscale e della giustizia in tutto il mondo nella giornata comune denominata #MakeAmazonPay.
Questo movimento è iniziato nei magazzini di Amazon. Mentre la ricchezza di Bezos superava i 70 miliardi di dollari dall'inizio della pandemia, i lavoratori di Amazon mettevano ogni giorno a repentaglio la loro salute ricevendo aumenti marginali della retribuzione. Si dice che l’azienda monitori i magazzini, sanzioni i lavoratori ogni volta che la loro produttività diminuisce e che spii i loro tentativi di organizzarsi. Come conseguenza, i lavoratori sono costretti a urinare in bottiglie per la mancanza di una pausa adeguata (Amazon ha contestato quest'accusa), migliaia di contagi da Covid e denunce di dispositivi inadeguati per i lavoratori. Bezos potrebbe dare a ciascuno dei suoi 876.000 dipendenti un bonus di 105.000 dollari, e continuare ad essere ancora vergognosamente ricco come lo era prima dello scoppio della pandemia.
Gli effetti delle pratiche di sfruttamento di Amazon si sono sentiti in tutto il pianeta. Nonostante gli impegni filantropici di Bezos a sostegno della causa climatica, l'impronta di carbonio della sua azienda continua ad aumentare, raggiungendo tra il 2018 e il 2019 il 15%. Oggi, le emissioni di carbonio di Amazon hanno superato le emissioni di due terzi dei paesi del mondo. Considerata l'espansione rapida della sua rete di navi per la spedizione, e considerata la crescita esponenziale dei suoi affari di cloud computing, che oggi costituiscono circa un terzo dell'intero mercato globale, questa impronta è destinata ad aumentare. Nonostante una pesante campagna pubblicitaria per proclamare la sua posizione in materia di clima, Amazon non ha reso noto con chiarezza quale fosse il suo percorso per la decarbonizzazione, e secondo Greenpeace, i suoi impegni in materia di clima sono stati, invece, vanificati dalle sue attività. In poche parole, Amazon è profondamente indebitata. Dagli investimenti pubblici nelle nostre infrastrutture digitali ai sussidi governativi provenienti dai contribuenti, il successo di Amazon si fonda sul lavoro e sulla ricchezza delle società da cui trae profitto. Ma invece di restituire quanto guadagnato alla società, Amazon ha privato gli stati delle entrate fiscali, ha fatto pressione sui governi locali, ha schiacciato le piccole imprese, e ha violato palesamene il rispetto della privacy e i diritti relativi ai dati delle persone. Il disegno di legge sulle tasse dice che nonostante abbia realizzato entrate per 960 miliardi di dollari negli ultimi dieci anni, la società ha pagato tasse soltanto per 3.4 miliardi di dollari. In altre parole, Bezos ha speso per la sua villa di Beverly Hills (165 milioni di dollari) più di quanto abbia pagato per le tasse federali degli Stati Uniti (162 milioni di dollari).
Questo Black Friday rappresenta un punto di svolta. Mettendo insieme le lotte dei sindacalisti, degli ambientalisti e dei sostenitori della politica pubblica progressista, si sta affermando una coalizione di livello planetario che presenta nella giornata di azione globale una serie di rivendicazioni comuni. Si stanno piantando una moltitudine di piccole asce ai piedi del grande albero che è l'impero Amazon.
Oggi, i lavoratori della catena di fornitura di Amazon, guidati dalle organizzazioni sindacali di Uni Global Union, Amazon Workers International, Spi, IndustriALL, dalla coalizione Athena e dalla Confederazione internazionale dei sindacati, stanno chiedendo giustizia alle società che funzionano grazie alle loro energie. Dai produttori del Bangladesh ai lavoratori del settore tecnologico a Seattle, dai call centre di Amazon nelle Filippine ai magazzini di tutta Europa, si sta mobilitando un movimento globale per garantire che Amazon paghi adeguatamente i lavoratori, rispetti i loro diritti ad organizzarsi e rafforzi il potere dei lavoratori.
I gruppi ambientalisti di tutto il mondo, da Amazon Employees for Climate Justice a Greenpeace, 350.org a Les Amis de la Terre, e altri ancora, si sono uniti al loro appello. Questi gruppi oggi uniscono le loro forze per chiedere ad Amazon di smettere di fare accordi con i grandi del petrolio, di mantenere la promessa di attivare una rapida decarbonizzazione e di pagare per la distruzione ambientale che ha causato in tutto il sud del mondo.
I gruppi Tax Justice Network, Oxfam e Data 4 Black Lives, nel sottolineare i profondi debiti che Amazon ha nei confronti della società, hanno deciso di far pagare ad Amazon per aver abusato delle nostre istituzioni pubbliche. Questa coalizione di sostenitori della giustizia sociale chiede che sia posta fine immediata alle violazioni di Amazon dei diritti civili e della privacy attraverso la vigilanza e la collaborazione di massa con le forze di polizia accusate di violenza razziale.
Questa giornata di azione del Black Friday è, pertanto, un avvertimento ed un invito.
Questa coalizione unita mette in guardia Amazon: i giorni dell'impunità sono contati. Con gli scioperi, il boicottaggio e con le azioni di solidarietà, la gente è pronta a combattere le cattive pratiche di Amazon e a difendere i diritti dei lavoratori, dei cittadini e delle comunità in prima linea che sopportano il peso del degrado ambientale. Ma la giornata di azione di oggi è solo l'inizio: un invito alle persone di tutto il mondo ad unirsi al movimento “Make Amazon Pay”, affinché il giorno dopo il Black Friday non sia diverso dal giorno prima: la lotta deve andare avanti, e per avere successo, avrà bisogno di tutti noi.

Per leggere l'articolo originale: This Black Friday, a global coalition is holding Amazon to account