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La Corte di Giustizia dell’Unione europea ha messo nero su bianco un principio che potrebbe ridisegnare radicalmente la politica migratoria italiana: uno Stato membro non può qualificare un Paese terzo come "sicuro" per i richiedenti asilo se non esistono meccanismi di controllo giurisdizionale trasparenti ed effettivi, né può mantenere tale designazione in assenza di protezioni universali per tutta la popolazione.
Bocciatura senza appello
Una sentenza che arriva come una bocciatura senza appello per il cosiddetto “modello Albania”, l’accordo siglato dal governo Meloni per esternalizzare le procedure di frontiera trasferendo migranti in strutture costruite fuori dal territorio nazionale, ma poste sotto giurisdizione italiana.
Secondo il Tavolo asilo e immigrazione, che ha diffuso una nota commentando la decisione della Corte, la sentenza rappresenta “un colpo al cuore” dell’intera architettura normativa che ha sorretto finora il protocollo bilaterale Italia-Albania. In particolare, viene demolita la pratica – centrale nell’accordo – di respingere rapidamente le domande d’asilo sulla base della presunta “sicurezza” automatica del Paese di origine.
“Non è più possibile giustificare accelerazioni procedurali o respingimenti sommari con atti opachi e privi di fonti verificabili. La Corte ha chiarito che ogni Paese designato come ‘sicuro’ deve offrire garanzie effettive, senza eccezioni”, denuncia il Tavolo asilo.
Verdetto chiaro
La sentenza conferma quanto sostenuto da tempo da numerose organizzazioni della società civile: trattare come "sicuro" un Paese che non offre protezione effettiva a tutte le persone è giuridicamente insostenibile. Ed è proprio quanto è avvenuto nei mesi scorsi con i trasferimenti verso l’Albania. “Ogni nuova attivazione del protocollo, alla luce di questa pronuncia, rischia ora di essere rapidamente impugnata e annullata in sede giudiziaria”.
Il governo, fa notare il Tavolo, ha finora provato a presentare come legittimi diversi aspetti del modello, tentando di piegare decisioni giudiziarie alla propria narrazione. Ma questa volta il verdetto di Lussemburgo è chiaro e difficilmente aggirabile: la struttura legale su cui si reggeva il protocollo è stata smontata pezzo per pezzo.
Resta aperto un altro fronte giuridico, che riguarda i trasferimenti verso l’Albania direttamente dai Centri di permanenza per il rimpatrio (Cpr) in Italia. Su questo tema pende un nuovo rinvio pregiudiziale alla stessa Corte di Giustizia, ma si tratta di un iter che potrebbe durare almeno due anni. Nel frattempo, osserva il Tai, anche la seconda fase del modello è finita sotto il fuoco incrociato di denunce, censure giuridiche e analisi indipendenti.
Voltare pagina
Tra queste, il report “Ferite di confine”, recentemente diffuso dallo stesso Tavolo, ha documentato gravi violazioni dei diritti fondamentali nei trasferimenti dai Cpr italiani al centro albanese di Gjader, sottolineando l’uso arbitrario di misure coercitive, l’assenza di controlli sanitari preventivi e la mancata tutela giuridica per le persone coinvolte.
Ora il Tai chiede al governo di voltare pagina. “Alla luce della pronuncia della Corte, ogni ulteriore passo verso la riattivazione del protocollo Italia-Albania rappresenterebbe una scelta consapevole di violare il diritto europeo, internazionale e costituzionale. Il modello Albania va dismesso subito, senza ambiguità”.