A una ventina di giorni dal voto del 4 novembre, McCain e Obama si incontrano per l’ultimo dibattito in un clima di crescente fiducia da parte democratica e di evidente nervosismo da parte repubblicana. I sondaggi dicono Obama, anche in stati insospettabili come la West Virginia dove occorre tornare ai tempi di Johnson per trovare una vittoria democratica alle elezioni presidenziali. Tutti o quasi gli swinging states – gli stati dall’incerto orientamento elettorale - sembrano scivolare giorno dopo giorno nel campo di Obama. Stati quali Ohio, Colorado e Virginia che hanno scelto Bush nel 2004 ora – dicono i sondaggi – si orientano, seppure con margini spesso ristretti, verso il Senatore dell’Illinois. Le previsioni danno a Obama 277 grandi elettori a fronte dei 174 per McCain. Nel mezzo i voti degli stati ancora incerti che se andassero tutti a McCain non sarebbero sufficienti a far perdere Obama.

La campagna di McCain, in grande difficoltà sui temi economici, ha consacrato i giorni della vigilia ad agitare sospetti sul passato e accuse sul presente di Obama. Il tutto in un clima di crescente tensione e violenza verbale agli stessi comizi del ticket repubblicano: un clima esplicitamente censurato da McCain ma non dalla Palin, che è sembrata più volte troppo empatica con gli eccessi dei suoi sostenitori. Due affairs hanno messo in moto la campagna repubblicana: la frequentazione tra Obama e un ex aderente a un noto gruppo radicale colpevole di diversi attentati terroristici nel corso degli anni sessanta, e il coinvolgimento di una grande associazione non profit di fede democratica in un caso di sospetta frode nella registrazione di nuovi elettori. E i due affairs dominano una parte importante del dibattito. Un assai combattivo e talvolta efficace McCain – uno dei maggiori successi retorici della serata è suo quando dichiara “Io non sono Bush. Se voleva battersi contro Bush, Obama avrebbe dovuto candidarsi quattro anni fa, non oggi” - si lascia quindi andare troppo spesso ad accessi rabbiosi cui Obama risponde con la sua ormai proverbiale flemma fatta di lunghi sorrisi ed espressioni ironiche. Cui però non corrisponde, in particolare nella prima parte del dibattito, l’efficacia che la maggior parte degli osservatori gli avevano riconosciuto in occasione dei duelli precedenti.

Si parte dall’economia: tasse e spesa pubblica
Obama nelle ultime settimane è stato capace di interpretare al meglio l’inquietudine degli americani di fronte al drammatico franare dell’economia, aggravata dalla ormai macroscopica latitanza dell’amministrazione in carica e in particolare del suo capo. Un Bush esangue e sempre troppo rilassato invitava alla calma il paese mentre Wall Street crollava e le maggiori istituzioni finanziarie del paese chiudevano i battenti travolte dalla crisi. Sulla base di un messaggio tutto orientato alla condanna degli eccessi del liberismo economico e del capitalismo finanziario, Obama ha costruito giorno dopo giorno il proprio vantaggio nei sondaggi, a partire dagli stati che sono vittime prima che della crisi finanziaria di quella produttiva.

Il messaggio di McCain e Palin che denuncia la crisi finanziaria come il frutto di assai generiche avidità e corruzione e non come il risultato di una determinata politica economica non sembra funzionare. Di fronte al piano per la Middle Class che sostiene Obama, fatto di punizioni fiscali per le imprese che delocalizzano e tagli fiscali per quelle che assumono e per le classi medie – McCain fa ancora una volta appello all’America profonda, e al personaggio di Joe Six Packs – una sorta di idealtipo dell’onesto lavoratore di provincia che alla fine di una giornata difficile consuma sei intere casse di birra …. – agitato nelle scorse settimane da Sarah Palin, si sostituisce quello di Joe The Plummer (Joe l’idraulico), rappresentante dello sterminato mondo delle piccole e piccolissime imprese cui, secondo McCain, Obama vorrebbe aumentare le tasse. Obama risponde con il suo impegno a ridurre le tasse per il 95% dei contribuenti e a sostenere la nascita delle piccole imprese. Di questo ha bisogno il paese, dice, e non di nuovi sconti fiscali alle grandi corporation come vuole McCain. Sconti che andrebbero a ingrassare i profitti della grandi imprese energetiche, attualmente al punto più basso della loro popolarità nel paese. McCain, da parte sua, propone la sua ricetta di nuovi sconti fiscali e denuncia la politica redistributiva di Obama. Si tratta per McCain “di lasciare i soldi di Joe The Plummer nelle sue tasche e non di redistribuirli” attraverso la fiscalità.

Si passa al commercio internazionale e ai diritti sindacali
Altro grande tema della campagna quello dell’apertura dei mercati e dei suoi effetti locali nelle aree manifatturiere del paese, che si concentrano in alcuni dei cosiddetti swinging states. Di fronte a un McCain che assicura la propria fede incondizionata nel commercio mondiale, Obama si appella a una politica commerciale diversa da quella promossa dall’amministrazione uscente. “Credo nel commercio mondiale – dice il candidato democratico - ma per troppo tempo si è pensato che qualsiasi accordo commerciale fosse buono in sé”. Occorre viceversa pesare il contenuto degli accordi introducendo standard ambientali e del lavoro: “dobbiamo affermare i diritti umani e difendere il diritto all’organizzazione sindacale. Questo deve far parte degli accordi di commercio internazionale”. McCain risponde accusando Obama di essere un nuovo Hoover – il presidente della grande crisi del ’29 – che “con il suo desiderio di alzare le tasse e la sua ostilità nei confronti del commercio internazionale ci farà passare dalla recessione alla depressione”.

Nuovi protagonisti: aborto e istruzione
Una domanda del moderatore sull’aborto e il futuro della Corte suprema scatena la tensione con un McCain impegnato a recitare la parte del conservatore a tutto tondo, denunciando la tendenza “degli abortisti a nascondersi sempre dietro la questione della salute della donna” Obama si schiera senza incertezze a sostegno del diritto delle donne ad abortire, ricordando come “nessuno sia a favore dell’aborto in sé”. L’obbiettivo deve essere quello di ridurre gli aborti. E per fare questo occorre anche più prevenzione, a partire dalle scuole. Un altro tema ‘nuovo’ del dibattito è proprio quello dell’istruzione, tema molto confortevole per Obama ma sul quale anche McCain si dimostra sorprendentemente efficace. Il conflitto è ancora una volta ideologico. Da una parte Obama sostiene che c'è  “bisogno sia di soldi, sia di riforme”. Occorre puntare alla scuola dell’infanzia, arma fondamentale per la prevenzione della dispersione scolastica e della devianza, investire in una nuova generazione di maestri, e intervenire sull’aumento dei costi dell’istruzione universitaria – che generalmente raggiungono in America le cinque cifre – “accordando agli studenti un credito di 4000 dollari all’anno in cambio di attività al servizio della comunità”.

Ma l’argomento forte di Obama – soprattutto per il suo carattere trasversale – è quello della responsabilità parentale, tema caldo in una paese in cui è proprio la disintegrazione della famiglia a essere vista correntemente come l’origine prima di gran parte dei problemi sociali. Obama dice che “anche i genitori devono fare la loro parte: spegnere il televisore e i videogames e instillare nei propri figli la passione per la conoscenza.” McCain risponde con un appello alla competizione fra gli istituti scolastici come soluzione al problema della qualità dell’istruzione che in molte grandi città – a partire dalla capitale federale – è precipitata negli ultimi anni a livelli drammatici. L’idea è quella di puntare a un sistema di vouchers che permetta anche alle famiglie a basso reddito di accedere a un’offerta scolastica migliore, a partire da quella privata. Un’idea che per Obama è non solo finanziariamente insostenibile ma anche sbagliata “perché – sostiene – significherebbe abbandonare quegli americani che i vouchers non riescono a riceverli”.

La ricomparsa di Hillary e la stanchezza degli americani
Infine, uno degli eventi della serata è la ricomparsa di Hillary Clinton che si spende generosamente nella promozione di Obama. Hillary Clinton, addirittura seduta nella platea dell’auditorium universitario nel quale si teneva il dibattito, parla alla CNN “in nome della campagna presidenziale di Obama”, frase molto a effetto e pronunciata con visibile sincerità. E alla domanda se accetterebbe un incarico in una eventuale amministrazione democratica risponde che preferirebbe “lavorare con il presidente Obama dal Senato”. Ma è la stessa presenza di Hillary Clinton a restituire l’immagine di una lunga – forse troppo lunga - campagna di cui gli americani iniziano a essere stanchi. Secondo un sondaggio, solo un terzo degli elettori vorrebbe a questo punto un nuovo dibattito. Tre sono sufficienti: le posizioni sono ormai consolidate e un po’ ovunque non si aspetta altro che arrivi la notte del 4 novembre. Fra venti giorni l’America avrà un nuovo presidente.