I sindacati africani salutano Okonjo-Iweala e ribadiscono che le regole commerciali devono rispettare i diritti dei lavoratori
This Day, 17 febbraio 2021

I sindacati africani hanno affidato alla nuova direttrice generale dell’Organizzazione Mondiale del Commercio – Omc - Ngozi Okonjo-Iweala l’incarico di garantire che gli accordi commerciali globali promuovano i diritti dei lavoratori, eliminino la povertà e garantiscano uno sviluppo sostenibile nel mondo

Nella dichiarazione di felicitazioni, firmata dal vicepresidente del sindacato globale Industriall Africa, i compagni Issa Aremu e Joseph Montisetse del Sindacato Nazionale dei minatori del Sud Africa (Num), di cui è copresidente, il consiglio africano del sindacato globale ha dichiarato che, considerate le sue credenziali impeccabili come ministra delle Finanze e degli Esteri e i risultati straordinari nella Banca Mondiale, la sua nomina è stata guadagnata e meritata, ben oltre al fatto di essere una donna.

Il movimento dei lavoratori del continente africano ha dichiarato che è giunto il momento che “le politiche commerciali alternative tengano conto dei bisogni dei lavoratori nel mondo, inclusa la crescita economica e lo sviluppo sostenibile”. 

Il sindacato globale Industriall ha avvertito che il settimo direttore generale deve essere ispirato dalla storia dell’Omc in Africa che “per molti aspetti ha favorito la deindustrializzazione e la perdita di posti di lavoro” attraverso “un sistematico smantellamento indiscusso della protezione delle industrie nazionali”.

I sindacalisti hanno osservato che la nomina di Okonjo-Iweala è “significativa e di altissima importanza” nel momento in cui il Trattato di libero commercio continentale africano, (AfCFTA), che riguarda 54 paesi africani con una popolazione complessiva di oltre un miliardo di persone di un Pil complessivo di oltre 3.4 trilioni di dollari, è diventato realtà.

Il sindacato globale ha, tuttavia, aggiunto che l’Omc, sotto la guida di un’africana, deve fare la differenza nel garantire che il commercio persegua l’obiettivo di una crescita più ampia, nonché quello di far avanzare l’industrializzazione e creare occupazione di massa sulla base del rispetto dei lavoratori e dei loro diritti.

L’Omc, si afferma nella dichiarazione, deve collaborare con l’Organizzazione Internazionale del Lavoro – Oil – per garantire che gli obblighi istituzionali che impediscono ai lavoratori di esercitare il diritto fondamentale alla libertà di associazione e alla contrattazione collettiva siano smantellati negli Stati membri dell’Omc.

Il movimento sindacale ha osservato che “la facilitazione degli scambi commerciali deve avvenire di pari passo con il diritto dei lavoratori a formare sindacati liberi per rappresentare il lavoro, a negoziare collettivamente i salari e le condizioni di lavoro”.

Nel contempo, il consiglio africano del sindacato globale Industriall ha chiesto che il regime militare nel Myanmar si dimetta immediatamente e rispetti i risultati elettorali dello scorso anno, nei quali la Lega nazionale per la Democrazia ha riportato una maggioranza schiacciante sul Partito per la Solidarietà e lo Sviluppo dell’Unione – Usdp - guidato dai militari.

Il sindacato ha condannato con forza il colpo di stato militare nel Myanmar e la detenzione dei dirigenti eletti democraticamente della Lega Nazionale per la Democrazia, Win Myint e Aung San Suu Kyi.

Per leggere l'articolo originale: African Trade Unions Hail Okonjo-Iweala, Insist Trade Rules Respect Workers’ Rights


Il contadino che sfida il potere indiano
Le Monde, 17 febbraio 2021

Figlio del leggendario sindacalismo agricolo, Rakesh Tikait incarna la rivolta degli agricoltori accampati da tre mesi alle porte di Nuova Delhi

L'incontro è stato fissato all'ingresso di una foresta, all'uscita di una città polverosa dell'Uttar Pradesh, a circa 20 chilometri da Nuova Delhi. “Verremo a prenderti. Non possiamo darti l'indirizzo di dove ci troviamo”. Alle 8 non c'era né un’auto e né un contadino. Il telefono squilla nel vuoto. Si percorrono allora le strade intorno. Più avanti una strada sterrata conduce ad un edificio in mezzo ad un campo, protetto da mura alte di colore rosa. L'ingresso lascia intravedere la presenza di grandi cilindri, dipinti con i colori del sindacato dei contadini. E’ un ashram (luogo di meditazione e preghiera), con il suo tempo indù. Un uomo è seduto al centro del cortile con un grembiule nero annodato al collo.

Rakesh Tikait è un uomo alto, grosso, dalla faccia rotonda, si sta facendo tagliare la barba, i baffi e aggiustare i capelli. Indossa pantaloni e il kurta bianco. La sua squadra si inchina e lo saluta in segno di rispetto. Gli portano la colazione. Finisce di preparasi con una lunga sciarpa e un copricapo di colore bianco e verse, il colore del sindacato di cui è portavoce.

Quest'uomo di cinquantuno anni, coniugato, padre di tre figli, originario di Sisaluli, ad ovest dell'Uttah Pradesh, nel cuore di una regione che produce canna da zucchero, è la nuova figura della rivolta contadina che sta sfidando il governo di Narenda Modi. Decine di migliaia di agricoltori del nord dell'India, guidati da 40 organizzazioni sindacali, accampati su tre autostrade e strade secondarie alle porte della capitale da tre mesi, al confine con Haryana e Uttar Pradesh, per chiedere l'abrogazione di tre leggi votate a settembre del 2020 dal Parlamento, nel momento più alto della diffusione della pandemia da Covid-19.

Queste leggi liberalizzano i mercati agricoli, che fino a quel momento erano stati regolamentati, e minacciano il sistema dei prezzi minimi di 23 prodotti base garantiti dallo stato, tra cui il grano o il riso. Da 83 giorni, questi contadini vivono e dormono in tende o nei rimorchi, usano l'acqua delle cisterne per lavarsi, mangiano alle mense occasionali. Un centinaio di loro sono state le vittime dell'inverno glaciale a Nuova Delhi ed hanno perso la vita.

Il mobilitatore delle folle. Rakesh Tikai ha dormito, questa notte, nell'hashram, a pochi chilometri dal luogo della protesta nel campo di Ghazipur, al confine con Deli e l'Uttar Pradesh, dove ha installato la tenda con migliaia di contadini, non certo per ragioni di comodità, ma perché la polizia ha bloccato Internet, strumento indispensabile per organizzare le sue visite. “Sono un contadino dell'Uttar Pradesh, sono arrivato a Ghazipur il primo giorno della protesta, il 26 novembre, e ci resterò finché il governo non ritirerà le leggi che uccideranno i contadini indiani”, afferma il sindacalista che appartiene alla casta molto influente di agricoltori Jats, e che ogni giorno sposta folle immense, tra le 10.000 e le 30.000 persone, provenienti dai dai consigli di villaggi enormi, i mahapanchayats, nei quattro angoli dell'Uttar Pradesh, dell'Haryana, del Rajasthan, del Maharashtra. Percorre migliaia di chilometri, si ferma lungo la strada per rilasciare interviste alla stampa locale, per incitare i contadini. Non ci sono dubbi che ha salvato la protesta dei contadini nella notte del 28 gennaio. Mentre le forze dell'ordine si apprestavano a sferrare l'attacco per respingere i contadini dal campo di Ghazipur, Rakesh Tikait è svenuto davanti alle telecamere. Ha giurato in lacrime che anziché cedere avrebbe preferito morire e gridato: “So che cosa accadrà quando arresteranno me e i miei compagni. Nessuno sarà arrestato. Non mi muoverò da qui”.

Il video ha fatto il giro di tutti i cellulari e i contadini che stavano per ritornare in campagna sono toranti indietro, altri contadini sono arrivati sul posto il giorno dopo. Donne e bambini provenienti dagli stati vicini sono arrivati con acqua e cibo. I media sono accorsi. Il dirigente del campo di Ghazipur è diventato l'epicentro della protesta contadina, finora relegata ai margini dell'attenzione dei media, dopo gli altri due centri di Singhu Border e Tikrit, occupati dai Sikh del Pendjab e di Haryana.

Il governo aveva sperato di prendere il sopravvento sul movimento, che fino a quel momento era stato pacifico, ma che ha deragliato dal percorso pacifico il 26 gennaio, nel giorno della festa nazionale, dopo che i manifestanti avevano invaso la capitale, contravvenendo alla promessa fatta dai sindacati. Hanno forzato le barricate, invaso l'edificio simbolo dell'indipendenza dell'India, il Forte Rosso, e si sono scontrati per diverse ore con le forze dell'ordine, sono rimasti sul terreno un morto e 400 feriti e molti danni, In un solo giorno, i contadini pacifici sono diventati fautori di violenze. Pane benedetto per il governo, che ha, quindi, dispiegato la forza accerchiando gli accampamenti, scavando trincee, erigendo barricate, bloccando Internet, cancellando centinaia di account Twitter di agricoltori e arrestando i giornalisti troppo curiosi.

Non si saprà mai se le lacrime dei sindacalisti fossero lacrime di coccodrillo o lacrime di disperazione. Rakesh Tikait, che parla solo in hindi, non è adeguato alla comunicazione. Dispone di una squadra preparata a gestire i media. Sul suo accounti Twitter, sulla sua pagina Facebook si legge: “Le lacrime che ho versato non erano le mie, ma quelle di tutti gli agricoltori indiani”.

La stampa indiana, che per lo più sostiene Modi, lo ha descritto come un improbabile eroe: la guida della rivolta ha votato nel 2019 per il Partito del Popolo Indiano - Bharatiya Janata (Bpj) - il partito al potere, e non è riuscito a vincere le elezioni nell'Uttar Pradesh nel 2007 e alla camera del parlamento nel 2014. I giornali hanno suggerito che potrebbe essere stato inviato dal governo per “neutralizzare” i sindacati nel Punjab e nell'Haryana.

Rakesh Tikait si difende così. “Non faccio politica. Il mio voto a favore del Bpj è stata una decisione individuale, non una direttiva, mia moglie ha votato per un altro partito. Noi agricoltori non protestiamo contro un partito, non protestiamo contro il governo Modi, ma contro le sue leggi”.

Questo figlio di un agricoltore, con laurea in scienze politiche presso l'università di Meerut, è stato il responsabile della brigata artificieri della polizia di Delhi per otto anni, prima di diventare il portavoce del sindacato indiano degli agricoltori - Bharatiya Kisan (BKU) - nel 1997, fondato da suo padre, Mahendra SinghTikait, e guidato da suo fratello Naresh Tikait.

I contadini lo considerano l'erede del padre, una leggenda nell'Uttar Pradesh e colonna del mondo agricolo.

Scomparso nel 2011, Maherenda Singh Tikait aveva sfidato il primo ministro, Rajiv Gandhi, organizzando una manifestazione enorme di contadini a Nuova Delhi nel 1988, per chiedere l'aumento del prezzo della canna da zucchero e l'esonero dalle spese dell'acqua e dell'elettricità per gli agricoltori. L'anno dopo, Rajiv Gandhi perse le elezioni e fu costretto a lasciare il potere. La storia si ripete con il figlio dopo più di trent'anni?

Rakesh Tikait, sotto il ritratto di suo padre, nella tenda sorvegliata da un uomo armato, che proclama l'apolitismo del movimento contadino, è una sfida per Modi e i suoi alleati nel campo di Ghazipur. Anche se nei consigli di villaggi, i mahapanchayats, non frena più gli attacchi contro il primo ministro e i suoi amici industriali, “i commercianti di fame”. I contadini che lo ascoltano ripetono che non voteranno più per “un uomo che fa piangere il nostro leader”.

Narenda Modi, che aveva promesso nel 2014 di raddoppiare il reddito degli agricoltori entro il 2022, sta affrontando la crisi sociale più grave da quando è stato eletto per la prima volta nel 2014. L'8 febbraio ha nuovamente difeso la riforma, che avvantaggerà “i piccoli produttori”, e biasimato “gli attivisti parassiti che protestano”.

Dall'inizio della protesta, non ha smesso di accusare i manifestanti, messi sullo stesso piano degli “antinazionalisti”, accusa abitualmente attribuita ai dissidenti, e di evocare un “complotto dello straniero”.

Il primo ministro indiano ha forse raggiunto i limiti del gesto autoritario, poco empatico per i contadini, che rappresentano circa la metà della popolazione indiana, 650 milioni di persone, che vivono spesso con famiglie povere, indebitate, indebolite dagli effetti del cambiamento climatico e dalla suddivisione delle terre in parcelle: l'86% degli imprenditori agricoli indiani possiede meno di 2 ettari. Senza una regolamentazione e senza l'aiuto dello stato non riusciranno a resistere alle imprese private.

Il prezzo di vendita dei loro prodotti, e dunque delle loro entrate, rischia di crollare. I contadini arrabbiati raccontano che quando falliranno, gli industriali, amici di Modi, compreranno le loro terre per trasformarci in operai”.

La rivolta dei contadini è dirompente e il governo nazionalista indù potrebbe subire le conseguenze nelle prossime elezioni. Soprattutto nello stato dell'Uttar Pradesh, lo stato più popoloso dell'India, dove si terranno le elezioni nel 2022. Nelle ultime settimane, l'intransigenza del primo ministro ha favorito l'avvicinamento della comunità Jats e della comunità musulmana, il cui peso elettorale sarà determinante. E' la storia che ritorna. Sette anni fa, nell'estate del 2013, nel distretto di Shamil e di Muzaffarnagar, il sangue era corso nei campi dell'Uttar Pradesh, in seguito alle accuse di molestie sessuali subite da una ragazza jat da una ragazza musulmano. La situazione degenerò subito. Il partito politico di Narenda Modi, che a quel tempo si trovava in campagna elettorale, aveva rilasciato dichiarazioni incendiarie con le quali contribuì a far precipitare lo scontro tra le due comunità.  Il 7 e 8 settembre, morirono 62 persone (42 musulmani e 20 indù). 50.000 musulmani furono costretti a lasciare le loro abitazioni.

Rakesh Tikait stesso è sospettato di aver alimentato la violenza. Il partito al governo, che ha promesso di mantenere la supremazia hindù in India contro ogni altra religione, soprattutto contro la religione musulmana, ha raccolto i frutti della divisione. Qualche mese più tardi, la maggioranza della comunità Jats ha votato per il partito nazionalista e portato al potere Narenda Modi. Le ferite causate da questi due giorni di terrore a Muzaffarnagar non si sono mai guarite.

Sul palco improvvisato nel campo di Ghazipur, dove i dirigenti si alternano ogni giorno per mantenere alta la mobilitazione e il morale delle forze, un responsabile locale del sindacato Rakesh Tikait ha implorato i contadini di “non cadere nella trappola della divisione indù-musulmana”. “E' il momento di andare avanti uniti, lasciando da parte le nostre diversità. Insieme potremo rimodellare la politica nell'ovest dell'Uttar Pradesh e rinascere come una forza che non potrà essere ignorata”. Forse Narenda Modi non sa di aver gettato i semi del rinnovamento.

Per leggere l'articolo originale: Le paysan qui défie le pouvoir indien


La protesta dei lavoratori nel Myanmar non si piega: “Possiamo far cadere il regime”
The New York Times, 16 febbraio 2021

Dopo due settimane dal colpo di stato dei militari, i numerosi scioperi stanno minando il tentativo dei generali al governo di affermare l’autorità su una popolazione infuriata

Gli autori del colpo di stato nel Myanmar hanno chiesto alle centinaia di migliaia di dipendenti pubblici, medici, operatori ecologici, lavoratori del settore elettrico, di mettere da parte le loro “emozioni”, di porre fine alle proteste contro i militari e di tornare al lavoro.

Ma lunedì, dopo che l’esercito aveva posizionato nelle strade di notte i blindati come dimostrazione di forza, i lavoratori non sono tornati al lavoro. Lo sciopero, che sembra si stia intensificando, sta indebolendo i generali al potere, mentre cercano di affermare la loro autorità sulla popolazione dopo la presa del potere di due settimane fa.

Lo sciopero è stato significativo soprattutto tra i dipendenti pubblici del ministero dell’elettricità, degli uffici delle imposte e del Dipartimento dell’Amministrazione Generale, che sovraintende una larga fetta di servizi pubblici e di attività governative. Il dottor Kyaw Zin, chirurgo che ha guidato il primo sciopero del paese nell’ospedale statale Mandalay General Hospital, Ha detto: “Non possiamo lavorare sotto una dittatura”. “Sono abbastanza sicuro che riusciremo a far cadere il regime”.

Il movimento di disobbedienza civile, noto con la sigla Cdm, gode di un sostegno diffuso in tutto il paese. Mira agli interessi estesi dei militari, alle attività governative essenziali del governo militare e organizza le manifestazioni nelle strade e le proteste che si esprimono con il rituale rumoroso serale di pentole padelle.

L’enorme manifestazione di sostegno è impressionante considerata la brutale storia dell’esercito che ucciso manifestanti filodemocratici nel 1988 e nel 2007. Secondo la stima di un esperto del sistema del servizio civile del governo, che conta un milione di dipendenti pubblici, avrebbero scioperato tre quarti dei dipendenti pubblici. Molti di loro sono essenziali per il funzionamento dell’amministrazione del paese.

Lunedì mattina, i soldati sono apparsi al posto degli agenti di polizia nei luoghi importanti delle strade della seconda città più grande del Myanmar, Yangon, e vicino al quartiere generale della Banca centrale, e nelle strade di Mandalay. Come ulteriore prova degli sforzi dei miliari tesi a soffocare le manifestazioni, al mattino presto di martedì è stato bloccato per il secondo giorno consecutivo il servizio di Internet in quasi tutto il paese. NetBlock, gruppo situato in Gran Bretagna che monitora l’uso libero di Internet in tutto il mondo, ha affermato in un post su Twitter che, alle 1 del mattino ore locali, il paese si trovava “nel blocco di Internet pressoché totale”.

I militari hanno posizionato durante la notte veicoli blindati nel centro di Yangon, apparentemente per intimidire i manifestanti. La gente, invece, ha allungato cartelli dalle automobili sui quali si leggeva “Non vogliamo il governo militare” e si è fatta fotografare in foto di gruppo. Per evitare alla polizia di raggiungere il luogo della protesta, dei motociclisti hanno parcheggiato le loro auto in strada con i cofani alzati ad indicare un guasto al motore e creando un ingorgo.

L’autore del colpo di stato del 1° febbraio il generale Min Aung Hlaing, si è appellato ai lavoratori pubblici la scorsa settimana perché tornassero al lavoro, dichiarando che sono stati incoraggiati da “persone senza scrupoli”. Kyaw Zin, chirurgo che ha guidato uno dei primi scioperi, ha affermato: “Non torneremo al lavoro finché non se ne andrà”. Non ha il diritto di dirci di andare al lavoro, perché nessuno lo riconosce come leader. Deve andarsene. Questo è l’ultimo colpo di stato nel Myanmar. Combatteremo per questo”.

Il medico chirurgo ha osservato che i suoi pazienti possono andare per essere visitati da lui senza pagare. I residenti di Yangon hanno portato i rifiuti nei contenitori del vicinato dopo aver saputo che la raccolta dei rifiuti è stata fermata dallo sciopero degli operatori ecologici. I consumatori hanno iniziato a boicottare le aziende di proprietà dei militari, tra queste l’azienda di birra, una volta popolare, e la catena d’oro e di pietre preziose di proprietà di un membro del nuovo corpo militare al governo, il Consiglio per l’Amministrazione dello Stato.

U Pyae Sone, guardialinee in sciopero, ha detto che il 60% dei dipendenti del ministero dell’Elettricità ed Energia, il fornitore di energia elettrica della nazione, ha aderito al movimento scioperato. Un vasto numero di dipendenti pubblici sono lettori dei contatori elettrici e la loro assenza dal lavoro non permette al ministero di inviare bollette.

Alcuni lavoratori del ministero sono rimasti negli uffici del ministero di notte per evitare che le autorità staccassero l’elettricità prima di fare irruzioni e arresti nella notte. Altri lavoratori del ministero hanno incoraggiato i clienti a non pagare le bollette, suggerendo che il ministero non può staccare l’elettricità dell’utenza per morosità delle bollette per tre mesi. Per U Pyae Sone bisogna aderire al movimento per fermare il regime e far cadere la dittatura. Anche i lavoratori delle banche private hanno scioperato nella speranza di mettere in ginocchio il regime impendendo le transazioni e rallentando l’economia.

“Se non andremo al lavoro, l’economia si fermerà”, ha dichiarato Daw Thandar Kyaw, impiegato di banca che ha partecipato allo sciopero. “Min Aung Hlaing si preoccupa dell’economia perché ama il danaro. Credo fermamente che possiamo far cadere i dittatori se tutto il personale di banca si unirà al movimento di disobbedienza civile, il CDM”.

Lunedì pomeriggio, centinaia di manifestanti si sono riuniti a Manadaly, fuori dagli uffici della banca statale Myanmar Economic Bank e hanno chiesto ai dipendenti di aderire allo sciopero. Soldati e agenti di polizia hanno disperso i manifestanti, spingendoli nei pressi delle case vicine dove li hanno picchiati.

Per leggere l'articolo originale: Can Bring Down the Regime’: Myanmar’s Protesting Workers Are Unbowed


La lotta per il salario minimo dei lavoratori negli Stati Uniti è vicina a una grande vittoria: “Ci auguriamo che passi alla storia”
The Guardian, 13 febbraio 2021

I lavoratori del fast food sciopereranno martedì, nella speranza che decine di milioni di lavoratori possano beneficiare dall’aumento del salario minimo

La paura si impossessò di Alvin Major quando, in una gelida mattina di novembre 2012, decise di scioperare alla KFC di Brooklyn dove lavorava. “Tutti avevano paura”, racconta Major. Aveva paura, ma ciò che non sapeva Major è che stava per entrare nella storia americana come uno dei primi dirigenti del movimento del lavoro, che oggi, secondo alcuni storici, costituisce il maggior successo degli ultimi 50 anni negli Stati Uniti.

La paga di Major era di appena 7.25 dollari l’ora come cuoco presso KFC, ma le conseguenze della perdita dei posti di lavoro sarebbero state disastrose, poiché la sua famiglia già incontrava difficoltà a pagare l’affitto del mese successivo. “Tutti avevano paura di ritornare al lavoro”, racconta Major. “Nessuno immaginava che cosa sarebbe diventato questo movimento”.

Lo sciopero di New York realizzato da centinaia di lavoratori in maggioranza neri e bruni del fast food di New York è stato il più grande della storia degli Stati Uniti, ma sarebbe stato attenuato da quanto sarebbe avvenuto due anni dopo, quando gli scioperi si diffusero in tutta l’America, e i lavoratori del fast food di 33 paesi si erano uniti al crescente  movimento globale per ottenere una paga migliore e diritti più forti sul posto di lavoro.

La lotta del movimento del lavoro per il salario minimo, denominata “Fight for $15”, è cresciuta in otto anni, si è trasformata in un’organizzazione internazionale che ha combattuto con successo per aumentare il salario minimo in tutti gli Stati Uniti, ha ridefinito l’agenda politica negli Stati Uniti ed ha agito da trampolino per altri movimenti, tra cui il Black Lives Matter. Ora è vicina ad una delle più grandi vittorie per i diritti dei lavoratori degli ultimi decenni.

I lavoratori del fast food sciopereranno di nuovo questo martedì, nella speranza che il cambiamento possa interessare milioni di lavoratori americani.

Per Major, che ora ha 55 anni, tutto ebbe inizio in una sala di Brooklyn, dove attivisti sindacali e di comunità si erano incontrati per decidere quale pressione esercitare in un settore noto per salari bassi e condizioni di lavoro misere, in uno stato che aveva mostrato avere scarso interesse nei confronti di questi lavoratori.

Major racconta che i lavoratori avevano uno spazio nel quale parlare “di come avere i buoni pasto, come avere aiuti per pagare l’affitto, di tutte queste cose, e del lavoro svolto per queste aziende che stavano realizzando miliardi”. Proprio in uno di questi incontri, un lavoratore mostrò le ustioni al braccio che si era procurate sul lavoro. Gli altri lavoratori della stanza si accorciarono le maniche per mostrare in segno di solidarietà le loro cicatrici. Dissero che anche se si ferivano al lavoro, avevano troppa paura di fare la pausa.

Major non immaginava in quale America sarebbe andato quando lasciò la Guyana nel 2000. “Nella nostra famiglia c’erano 14 figli, la moglie di mio padre non ha mai lavorato un giorno. Mio padre lavorava, si prendeva cura di noi, avevano un tetto, andavamo a scuola, mangiavamo ogni giorno, aveva il proprio mezzo di trasporto.”

Major ha scoperto che in America, “il Paese più grande, più potente e più ricco della storia nel mondo, devi lavorare, tua moglie deve lavorare, e quando i figli raggiungono un’età devono lavorare, e a mala pena ce la fai”.

Il lobbismo industriale si è alleato con i Repubblicani e l’opposizione Democratica aveva bloccato, fino a poco tempo fa, il salario minimo negli Stati Uniti a 7.25 dollari, ultimo aumento del salario avvenuto nel 2009. L’aumento del salario minimo a 15 dollari dovrebbe essere incluso nel pacchetto di aiuti contro il Covid da 1.9 trilioni di dollari proposto da Joe Biden, la cui approvazione dovrà affrontare ancora un’opposizione feroce. Persino Biden, che ha sostenuto la campagna per l’aumento del salario minimo, ha espresso dubbi sulla sua approvazione. Ma i Democratici più progressisti, che comprendono il senatore Bernie Sanders, che da tempo sostiene da campagna, sono decisi a portarla avanti alla Camera con il disegno di legge di aiuti per affrontare la crisi provocata dal Covid.

La posta in gioco è alta. Questa settimana, l’Ufficio di Bilancio del Congresso ha affermato che 27 milioni di americani saranno i destinatari dell’aumento, e 900.000 americani usciranno dalla povertà in un periodo in cui i lavoratori con salario basso, soprattutto la gente di colore, ha sofferto maggiormente durante la pandemia. Inoltre, l’Ufficio ha affermato che l’aumento provocherà la perdita di 1.4 milioni di posti di lavoro e l’aumento del deficit del bilancio federale di 54 miliardi di dollari nei prossimi 10 anni.

Alcuni economisti hanno contestato le previsioni dell’Ufficio sulle perdite di posti di lavoro. L’Economic Policy Institute le ha definite “sbagliate e gonfiate in modo sproporzionato”. Il lungo dibattito sul costo reale dell’innalzamento dell’età minima è destinato a continuare. Sicuramente Biden dovrà affrontare conseguenze politiche se la promessa fatta nella sua campagna elettorale di aumentare il salario minimo e posta al centro dei suoi piani per affrontare la disuguaglianza razziale, non dovesse essere onorata all’inizio del suo mandato presidenziale. Questa conseguenza politica interesserà la base del partito, almeno al di fuori di Washington. La divisione politica negli Stati Uniti può ricordare quella della guerra civile americana, ma i sondaggi mostrano che la maggioranza degli americani sostiene l’aumento del salario minimo indipendentemente dal partito di appartenenza. Il 60% degli elettori, quando ha votato per rieleggere Donald Trump, ha votato anche per l’iniziativa popolare per aumentare il salario minimo a 15 dollari entro il 2026.

La maggioranza degli elettori ha votato più per l’iniziativa popolare che per i candidati alla presidenza dello stato. Secondo il National Employment Law Project – Nelp - la Florida, sette stati più il Distretto di Columbia si sono impegnati ad aumentare il salario minimo a 15 dollari o ad un livello più alto, e 74 città, contee e si sono impegnati ad aumentare il salario minimo nel 2021.

Il movimento del lavoro, e il suo sostegno diffuso, ha sfidato lo scenario politico, spingendo i politici Democratici, tra cui Biden, Hillary Clinton e il governatore di New York, Andrew Cuomo, a sostenere il salario minimo di 15 dollari, contro le loro precedenti remore. Nel febbraio del 2015, Cuomo definì il salario minimo di 13 dollari un” fallimento”. Nel mese di luglio, Cuomo ha sostenuto la legge per l’aumento del salario in California.

Nelle primarie per la scelta del candidato democratico alle presidenziali del 2016, Clinton passò dal sostenere l’aumento del salario minimo da 12 dollari a 15 dollari l’ora, mentre Sanders guadagnava terreno sul tema. Multinazionali come Amazon, Target e Disney sono passate al salario minimo di 15 dollari, o si sono impegnate a introdurlo.  In uno dei primi ordini esecutivi, Biden ha chiesto agli imprenditori federali di pagare ai lavoratori il salario minimo di 15 dollari.  La posizione a livello federale sarà la più grande vittoria per il movimento realizzata fino ad oggi, ma è fuori discussione che i progressi significativi realizzati siano avvenuti grazie al movimento, non ultimo con Alvin Major, che ora ha un lavoro all’aeroporto Jfk, guadagna 17 dollari l’ora e non si preoccupa più delle bollette da pagare.

Per il presidente del sindacato dei lavoratori dei servizi, Seiu, Service Employees International Union, Mary Kay Henry, questa è “la storia di Davide e Golia del nostro tempo”. Lei ritiene che il sostegno dell’opinione pubblica all’aumento del salario minimo sia dovuto alla “pervasività del lavoro sottopagato e al salario basso”.

“Ogni famiglia in America conosce qualcuno che sta cercando di arrivare a fine mese con un lavoro retribuito con il salario minimo. La pandemia ha evidenziato che questo lavoro è essenziale, in un modo che nessuno aveva notato prima,  e ora capiscono come i commessi dei negozi alimentari, i lavoratori delle case di cura, gli inservienti, i lavoratori degli aeroporti, gli agenti di sicurezza, gli autisti delle consegne, i lavoratori del fast food, tutti loro sono persone che cercano di fare il meglio possibile il loro lavoro e di provvedere alle loro famiglie”.

Il sindacato Seiu ha finanziato e sostenuto per lungo tempo “Fight For $15” e per Mary Kay Henry, la prima donna alla guida del sindacato Seiu, la lotta per l’aumento del salario minimo è soltanto l’inizio di una spinta più grande dei diritti dei lavoratori, non ultimo il diritto ad aderire al sindacato, in un settore, quello dei servizi, dove le donne e la gente di colore costituiscono un numero sproporzionato di lavoratori. Mary Kay Henry ha aggiunto: “L’80% della nostra economia è guidata dalla spesa al consumo. I posti di lavoro nel settore dei servizi e della cura sono i più importanti dell’economia statunitense, e dobbiamo creare le condizioni perché questi lavoratori aderiscano ai sindacati in questo secolo, proprio come i settori dell’auto, della produzione di gomme e dell’acciaio che sono stati le fondamenta del secolo scorso”.

“Se il Congresso americano non riuscirà ad accogliere le richieste del popolo americano, in termini di “Rispettaci, Proteggici, Retribuiscici”, dovrà pagare un prezzo politico nel 2022”. “I dirigenti della nostra nazione lo devono fare. Il Congresso ha utilizzato le sue regole per approvare trilioni di dollari per tagliare le tasse dei miliardari e delle grandi multinazionali, ora è giunto il momento che i dirigenti della nostra nazione aumentino la retribuzione di decine di milioni di lavoratori essenziali”.

A sostenere la presidente del sindacato sarà la generazione di giovani attivisti che si sono fatti le ossa nel movimento “Fight for $ 15” e lo hanno utilizzato come trampolino per il lancio del dibattito politico che ora è incentrato sulla giustizia razziale ed economica. Uno di questi dirigenti è Rasheen Aldridge, tra i primi ad aver agito, quando la lotta in favore dell’aumento del salario minimo si è estesa a Saint Louis, ed è stato eletto rappresentante dello Stato del Missouri lo scorso novembre.

Aldridge lavorava nel ristorante Jimmy John’s nel 2013, quando fu avvicinato da un organizzatore a livello di comunità che gli chiese delle sue condizioni di lavoro e della sua retribuzione. Aldridge era stato da poco umiliato dal direttore per aver sbagliato la preparazione dei panini e con un ritardo di 15 secondi. Per lui è stato così disumanizzante e imbarazzante.

L’organizzatore parlò degli scioperi organizzati a New York, a Chicago e in altre città, e suggerì che lo stesso poteva accadere nel Missouri conservatore. “Pensai che era pazzo”, racconta Aldridge. Ma pensò anche: “Devo fare qualcosa. Qual è la cosa peggior cosa che potrebbe accadermi? Sarò licenziato. Sarà un peccato, ma potrò trovare un altro lavoro, un altro lavoro con salario basso, perché purtroppo sono tanti i lavori con salario basso nel nostro paese e nella nostra città”.

Aldridge è diventato un dirigente del movimento locale per l’aumento del salario minimo e della rete di contatti. Alcuni di loro lavoravano per McDonald’s a Ferguson, nei pressi del negozio di liquori, dove Michael Brown, di 18 anni, appena diplomato otto giorni prima, è stato ucciso dalla polizia dopo aver lasciato il negozio con un pacchetto di sigarette probabilmente non acquistato. Aldridge ha sentito le auto della polizia arrivare di corsa sul posto. Questi spari hanno provocato mesi di agitazioni, che in seguito all’uccisione di altri neri, hanno portato il movimento Black Lives Matter a un punto di svolta. “Ricordo che ero al liceo e indossavo una felpa con cappuccio e dissi: “Sono Trayvon”, riferendosi all’omicidio del 2012 di Trayvon Martin, un ragazzo di 17 anni ucciso da una guardia nel quartiere di Sanford, in Florida.

“Credo che dopo Ferguson, le cose abbiano preso una piega del tutto diversa. Credo che abbiamo resistito a Ferguson come non abbiamo fatto in nessun altro posto”, afferma Aldridge, che è diventato uno dei primi organizzatori del movimento Black Lives Matter a Ferguson. “Credo che se non fosse stato per il movimento “Fight for $15”, non sarei andato a Ferguson dove sono rimasto per così lungo tempo”.

Per il giovane rappresentante, il movimento “Fight $15” e Black Lives Matters sono la stessa lotta. “Non si può parlare di ingiustizia razziale senza parlare di ingiustizia economica”. “Non si può dimenticare che quei lavoratori neri vivono nella stessa comunità oppressa, sottoposta a un controllo esagerato della polizia. Quei lavoratori sono gli stessi lavoratori che sono scesi nelle strade di Ferguson per protestare perché sentivano che Mike Brown poteva essere uno di loro, indipendentemente dal fatto che lavorassero a McDonald’s o che lavorassero in una struttura sanitaria”, afferma Aldridge. “È tutto collegato”.

“Speriamo che il presidente Biden persegua davvero un salario che permetta di vivere a tutti in tutti gli stati, senza dover sopportare un carico così pesante, specialmente nel mezzo della pandemia. Per lo storico del lavoro Erik Loomis, professore di storia presso la University of Rhode Island e autore di “A Hisotry of America in Ten Strikes”, il movimento “Fight for $15” rappresenta per i lavoratori una delle vittorie più significative in 50 anni. Anche se ci sono dei dubbi.

Loomis ha affermato: “Si è trattato di un successo enorme insieme ad altre questioni relative alla riformulazione delle narrazioni sull’uguaglianza economica in America”. Da Occupy Wall Street a Fight for $15, al movimento #MeToo e al Black Lives Matter, Loomis vi vede un movimento che lotta per una maggiore uguaglianza. “Per la prima volta dopo mezzo secolo ci stiamo muovendo nella direzione giusta, in un modo che, a parte i Repubblicani, non esisteva non solo con Obama, ma con Clinton e Carter”. “Questa è la piattaforma economica più a sinistra di qualsiasi altra piattaforma mai vista dagli anni ‘60”.

Ma, come osserva lo storico, il salario minimo di 15 dollari l’ora, per il quale Major e altri hanno lottato nel 2012, vale meno di allora a causa dell’inflazione, e varrà meno nel 2025, quanto molti stati americani raggiungeranno quel livello. La campagna per l’aumento del salario minimo, d’altronde, non è riuscita ancora a organizzare sindacati in molte realtà del fast food. “Secondo Loomis, “La risposta è continuare a fare pressione”. “In altre parole, non bisogna accontentarsi di 15 dollari. È il momento di arrivare a 20 dollari”.

I numerosi lavoratori che hanno aderito all’attività del movimento sono stanchi, perché anche se hanno riportato un duro successo, molti di loro sono stati colpiti dalla crisi provocata dalla pandemia, e ora temono che altri lavoratori possano essere lasciati indietro.

Mel 2010, Adriana Alvarez guadagnava 8.50 dollari l’ora da MaDonal’s a Chicago. La città ha votato a favore dell’aumento del salario minimo nel luglio di quest’anno e Alvarez ora riceve 15.15 dollari. Oggi è fiduciosa per il futuro. Prima dell’arrivo del Covid-19, quando il suo salario fu aumentato, “potevo riempire il frigorifero”, racconta Alvarez. Portava suo figlio al Winter Wonderfest, luogo frequentato dagli abitanti di Chicago per dimenticare il freddo dell’inverso e divertirsi pattinando sul ghiaccio.

Ma per Alvarez, il passaggio ad una vita migliore è stato duro. Prima che il movimento “Fight to $15” prendesse piede, i responsabili chiedevano regolarmente ai lavoratori di lavorare oltre l’orario senza essere pagati. C’erano risse e ostilità. Questo ora non c’è più. Alvarez racconta, ridendo: “I responsabili sanno che possiamo presentarci con 50 persone sul luogo di lavoro”.

Ha incontrato senatori durante la lotta, ha una foto con Sanders, c’è stata una telefonata con Biden, ha accolto il papa e ha incontrato lavoratori di diversi settori, dagli insegnanti ai lavoratori in lotta degli aeroporti e della sanità, per concludere un accordo migliore. Anche lei è sorpresa che la lotta per l’aumento del salario minimo abbia avuto successo. Quando le dissero che i lavoratori chiedevano l’aumento del salario minimo a 15 dollari l’ora, pensò che fossero dei pazzi. Alvarez afferma: “La direzione conosce un modo per demoralizzarti, facendoti sentire inutile, che non vali 15 dollari”. “Finalmente i politici stanno facendo quello che avrebbero dovuto fare. Il salario minimo è stato aumentato l’ultima volta nel 2009. Era ora. La vita poi è aumentata. La gente deve fare due o tre lavori per tirare avanti”.

Adriana Alvarez crede di essere parte della storia? “Mi auguro che diventi storia”, afferma Alvarez. “Ma non credo di essere parte della storia. Sono stanca, sono stanca di essere maltrattata, di essere sottopagata e di lavorare troppo. Vogliamo quei 15 dollari e un sindacato. Credo che non possiamo crederci fino a quando la storia non sarà scritta”.

Per leggere l'articolo originale: 'Hopefully it makes history': Fight for $15 closes in on mighty win for US workers

 

Analisi. Turchia: Erdogan incalzato da giovani disillusi
Le Monde, 12 febbraio 2021

Le proteste degli studenti turchi, nonostante la repressione, non sono diminuite. Il Partito dell’Università del Bosforo (in lingua turca, Bogazici) di Istanbul, ha vinto ad Ankara, a Izmir e ad Adana. Professori hanno manifestato, vestiti con le loro toghe, sui prati del campus, a Istanbul come ad Ankara, mentre 147 intellettuali turchi, tra cui il premio Nobel per la letteratura, Orhan Pamuk, hanno pubblicato una lettera a sostegno degli studenti

 

La nomina del nuovo rettore a Bogazici, istituzione pubblica tra le più prestigiose, decisa dal presidente Recep Tayyip Erdogan, ha ravvivato il fuoco sotto la cenere.  Alcuni studenti e professori hanno denunciato la procedura antidemocratica ed hanno deciso di sfidare la legittimità del rettore paracadutato dall’alto, Melih Bulu, un accademico la fedele, dato che è un militante del partito islamico-conservatore del presidente, l’AKP, al potere dal 2002.

I manifestanti gli chiedono di dimettersi. Nei cartelloni si legge: “Bulu! A parte Erdogan, nessuno di vuole qui”. Chiedono che sia rispettato il diritto di ogni università di eleggere il proprio rettore, poiché dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio del 2016, la selezione dei rettori, che avveniva quasi sempre in cooptazione con i consigli universitari, è stata abolita. A partire da quel momento, le nomine sono decise esclusivamente dal presidente Erdogan, che ha nominato 27 rettori nel 2020 e 12 nei primi due mesi del 2021.

Le autorità hanno risposto duramente la movimento studentesco. Il 4 gennaio, giorno in cui sono iniziate le proteste pacifiche, sono state arrestate più di 600 persone nel paese. Secondo il ministero turco degli Interni, sono state rilasciate 498 persone. Le altre persone si trovano sotto sorveglianza, in detenzione preventiva o in custodia cautelare. Le autorità turche hanno la loro interpretazione di quanto accade nei campus. Secondo il presidente Erdogan, gli studenti sono “terroristi” e “vandali”, “devianti LGTB”, e secondo il ministro degli Interni, Suleyman Soylu, “serpenti velenosi a cui si dovrebbe schiacciare la testa”, come ha scritto su Twitter Devlet Bahceli, leader di Azione Nazionalista, partito di estrema destra, partner della coalizione del partito al governo.

I media filogovernativi non sono meno duri delle autorità. Nell’edizione del 5 febbraio, l’editorialista del quotidiano Yeni Safak scrive: “Bogazici è l’ultima roccaforte dell’oligarchia intellettuale…Le università e lo stato non saranno tranquilli finché non sarà distrutta questa roccaforte”.

Il governo islamico conservatore, al potere da oramai vent’anni, sembra poter offrire ai giovani disillusi soltanto sradicamento, insulti e odio. Alp, studente di 21 anni che ha partecipato alle manifestazioni nel campus di Bogazici, dice che c’è “una distanza tra i leader e la realtà”. “E’ troppo chiedere elezioni universitarie democratiche? Il governo ci risponde arrestandoci e perquisendo il campus, sciogliendo il nostro club LGBT”.

Ada, studentessa di 20 anni presso l’università Galatasaray di Istanbul, che ha seguito le manifestazioni a Bogazici e conosce le aspettative dei suoi compagni, racconta: “La maggior parte dei giovani è insoddisfatta. Non vede un futuro in Turchia, poiché la situazione economica è pessima”. Non ci sono prospettiva di carriera, e né libertà”. I giovani laureati, “persone preparate e di mentalità aperta, ritengono che la libertà sia importante, che non è rispettata in Turchia, dove, in generale, la popolazione è legata ai valori tradizionali”.

Demonizzazione della comunità LGBT

La sete di libertà è uno dei motivi per cui i giovani vogliono lasciare il paese. Secondo un’indagine condotta nel mese di settembre 2020 dal centro studi sull’opinione pubblica, Avrasya, su un campione di 8.000 persone intervistate, il 76% dei giovani ha dichiarato di voler lasciare il paese. La generazione Z, ossia i giovani che hanno conosciuto soltanto il regno non condiviso del presidente Erdogan, colpita duramente dalla disoccupazione, il 27% rispetto alla media nazionale del 12,9%, crede che Erdogan e il suo partito non abbiano nulla da offrire. Anche Ada e Alp non credono che il loro futuro sia in Turchia.

La polarizzazione estrema della società turca, turchi contro curdi, sunniti contro alawiti, progressisti contro conservatori, laici contro religiosi, li demoralizza. Inoltre, i discorsi d’odio sono portati avanti con la demonizzazione della comunità LGBT, presentata come l’ala dura della protesta.

Erdogan ha ammesso di recente che la nuova generazione non è propensa ad accogliere i suoi messaggi, quando ha detto agli attivisti del suo partito: “La generazione Z non conosce le condizioni dei pazienti negli ospedali pubblici quando (l’opposizione) comandava”. È difficile raccontare ai nostri giovani che non hanno vissuto nei tempi andati della Turchia quanto siano state difficile le nostre conquiste.”

Le proteste degli studenti stanno indebolendo le speranze che Erdogan possa essere rieletto, perché ci saranno le elezioni presidenziali e parlamentari entro il 2023, dove voteranno 5 milioni di “primi elettori”, chiamati a votare per la prima volta. Secondo i politologi, solo un terzo dei giovani si sta preparando a votare per l’AKP e il suo “rais”. Il leader del Partito Popolare Repubblicano all’opposizione nella città di Istanbul afferma: “I nostri giovani sono insoddisfatti del modo in cui è governato. Pensano al loro futuro e i leader con mentalità retrograda dicono loro di guardare al passato”.

Per leggere l'articolo originale: En Turquie, Erdogan bousculé par une jeunesse désenchantée