Delle piattaforme presentate ed approvate dalle convenzioni democratica e repubblicana si perdono molto spesso le tracce. Se durante le elezioni a dominare il dibattito saranno soprattutto le dichiarazioni e le prese di posizione dei due candidati, una volta nominata, la nuova amministrazione deve confrontarsi con un congresso che anche se dello stesso colore non è mai tristemente docile e supino come molti dei parlamenti europei, a partire da quello italiano: la pratica dell’arte del compromesso è un imperativo costituzionale cui è raramente possibile sottrarsi. Le piattaforme politiche approvate dalle due convention danno però il senso di una direzione, delle forme assunte dal senso comune o quanto meno dell’idea di esso che si sono fatta i due maggiori partiti.

Il senso comune dei democratici è quello di un’America offesa da un’amministrazione incompetente, incapace di mettere ordine in un’economia in crisi e tutt’ora convinta - come lo era Herbert Hoover negli primi anni della grande depressione – che occorra semplicemente attendere che la crisi finisca, incurante del declino di classi medie alle quali i democratici guardano come alla colonna vertebrale sociale e valoriale del paese, responsabile di una politica estera che ha estinto il credito morale di cui l’America godeva nel mondo dopo la fine della guerra fredda. Quindi le affermazioni dal tono apocalittico si sprecano. A novembre, per i democratici, ad essere in gioco è il destino di una paese “che ha guidato il ventesimo secolo, costruito una forte e fiorente middle-class, sconfitto il fascismo ed il comunismo ed offerto grandi opportunità a molti”, un’eredità oggi a rischio con un’America coinvolta “da sei anni in una guerra su due fronti, un’economia in crisi ed un pianeta in pericolo.” Se Bush sembra Hoover, i democratici vogliono un nuovo New Deal e le ben tre citazioni riservate a Roosvelt non sembrano casuali.

La retorica di classe dei nuovi democratici. A essere in pericolo per i democratici è il sogno americano. Il paesaggio sociale è sconfortante, tale – e questo è il punto – da inaugurare una nuova stagione di big government. “I redditi sono in calo, mentre le ipoteche immobiliari sono in aumento. Milioni di nostri concittadini non hanno un’assicurazione sanitaria mentre le famiglie – definite dalla stessa piattaforma come sandwich families - sono strette fra orari di lavoro più lunghi e dal dovere di occuparsi dei propri figli che crescono e dei propri genitori che invecchiano”. La risposta pare essere tutta a sinistra, e ha l’ambizione di incarnarsi in un’amministrazione che rinnovi “le stesse speranze e idee nuove che hanno ispirato Roosevelt con il New Deal e Kennedy con la nuova frontiera”.

Risposta sociale alla crisi. Recita la piattaforma: “Daremo sostegno immediato all’America che lavora. A chi ha perso il lavoro, a chi ha perso la propria casa e a chi ha perso la propria strada”. Attraverso una strategia progressista di lungo periodo, che promette investimenti in infrastrutture e tecnologia verde. E con le promesse di dare termine alla “vergogna” di cure sanitarie costose e inaccessibili, proteggere il sistema pensionistico e aiutare gli americani a risparmiare in vista della loro vecchiaia, liberando il paese dalla dipendenza dal petrolio.

Ancora una volta, per i democratici, è molto facile superare i loro colleghi europei in termini di retorica “di classe”, quando si appellano a una nuova amministrazione che sia al fianco dei lavoratori (working class e classe media sono qui molto spesso sinonimi…) che ne faccia i loro interessi, diversamente dall’amministrazione uscente che ha viceversa rappresentato quelli di una piuttosto ristretta minoranza di super-ricchi. Per farlo occorre – anche se non lo si dice esplicitamente – espandere l’influenza dell’azione di governo attraverso una moltiplicazione di vecchi e nuovi programmi federali che da sempre, seppure in misura variabile, accompagnano le presidenze e le maggioranze parlamentari democratiche. Il tutto – dicono i democratici – grazie al liberarsi del gettito fiscale oggi intrappolato nel finanziamento della guerra in Iraq, e alla revoca di gran parte dalle riduzioni fiscali accordate dalle passate amministrazioni ai grandi contribuenti.

Sul fronte dell’altra grande fonte di afflizione per parte della working-class, quella delle dolorose ristrutturazioni produttive determinate dall’intensificarsi della competizione internazionale, le risposte della piattaforma non sono e non possono essere altrettanto nette. Un’indeterminatezza che ben rappresenta il dilemma di un partito sospeso fra l’eredità libero-scambista dell’amministrazione Clinton e i rigurgiti protezionistici di parte della sua base sindacale e del suo elettorato popolare. Obama – in questo almeno in parte aiutato dal neo-nominato Biden per la vice-presidenza - deve dimostrare al suo partito di essere un candidato a tutto tondo, e non il frutto del generico progressismo un po’ narcisistico delle nuove generazioni e dell’America urbana che ha così massicciamente votato per lui in occasione delle primarie. Impossibile (fortunatamente) un ritorno al protezionismo, i democratici si limitano a prefigurare revisioni dei trattati Nafta e un adeguamento degli standard sociali e ambientali nella competizione globale.

Una rivoluzione nei valori. I democratici sembrano voler definitivamente abbandonare l’idea che la prospettiva di un Stato forte e presente sia tramontata per sempre con la rivoluzione reaganiana avviatasi ormai quasi trent’anni fa. Allo stesso tempo, in linea con la geniale invenzione retorica di Obama di un partito che sia più di sinistra ma allo stesso tempo sia anche meno partigiano – invenzione di cui talvolta si stentano a prefigurare le applicazioni concrete – la piattaforma stabilisce incredibilmente “che non possono esserci idee repubblicane e idee democratiche, ma solo politiche che siano brillanti, giuste, eque e buone per l’America o politiche che viceversa non lo sono”.

Anche le ricette del senatore dell'Illinois in campo economico andrebbero nella direzione di una nuova sintesi. Un’idea ambiziosa e affascinante da un lato – quella di realizzare un nuovo senso comune progressista capace di sostituire quello conservatore che ha dominato il paese nell’ultimo trentennio e che tuttora ispira la campagna del rivale McCain – ma ben lontana dal realizzarsi, considerata la crescente difficoltà del candidato democratico a imporsi, quantomeno nei sondaggi. Nei prossimi mesi Obama dovrà dimostrarsi capace di mettere assieme quelle tante e diverse Americhe senza le quali il suo progetto di un nuovo senso comune progressista per l’America del XXI secolo è destinato a restare solo una grande ambizione.