Ha preso il via oggi (mercoledì 3 novembre) una serie di seminari dedicata ad approfondire la condizione delle donne nel mondo, un’iniziativa voluta dal dipartimento politiche di genere della Cgil nazionale, di concerto con l’area internazionale del sindacato di corso d’Italia. Primo appuntamento con lo sguardo rivolto all’Iran dove dal mese di settembre le donne si sono rese protagoniste di un movimento di protesta, nato sull’onda dell’indignazione per il brutale omicidio di Mahsa Amini, una giovane arrestata e poi picchiata fino alla morte dalle Guardie della rivoluzione perché non indossava correttamente l’hijab.

La goccia che ha fatto traboccare il vaso

Per Francesca Grisot, orientalista e antropologa presso l’Università Ca’ Foscari di Venezia, quel femminicidio “è stato la goccia che ha fatto traboccare il vaso dopo quarant’anni di tensione. Una rivolta esplosa per un evento specifico ma che, in realtà, stava maturando da tempo in ogni strato sociale”.

Il velo viene contestato oggi come simbolo di contenimento della libertà femminile. L’opinione pubblica, indignata inizialmente per il trattamento riservato alla famiglia della vittima e per il tentativo di liquidare la sua morte come dovuta a cause naturali pregresse, si mobilita ormai da due mesi dietro lo slogan “Donna, vita, libertà”, parole d’ordine prese in prestito dalle rivendicazioni delle donne curde e adesso incorporate e assunte da una mobilitazione più ampia ed estesa.

Durante il webinar vengono ricordati i numeri drammatici della repressione del regime iraniano nelle ultime settimane: 250 persone uccise, di queste 33 erano minorenni, 13mila persone arrestate, fermate o scomparse. Cifre approssimative perché dati ufficiali non ne esistono e la conta è affidata al lavoro delle ong per i diritti umani che operano in clandestinità.

Non si tratta di una prima volta, fa notare Grisot rispondendo alle domande di Esmeralda Rizzi del dipartimento politiche di genere della Cgil e coordinatrice del dibattito, “il velo era già stato contestato in diverse occasioni, sempre represse nel sangue, dal 1979 a oggi”. La prima volta fu proprio all’indomani dell’istituzione del suo obbligo, quella che ricordiamo più chiaramente nel corso della cosiddetta Onda Verde, nel 2009, e più di recente ancora sono state le ragazze di Enghelab nel 2017 a ribellarsi. Questo movimento, però, è diverso: “nessuno ha avuto una durata così lunga e un’adesione così massiccia anche tra gli uomini e tra le diverse classi sociali”. In più l’omicidio di Mahsa, avvenuto alla vigilia della celebrazione islamica dell’Arbaiin, ha avuto un forte impatto anche su alcuni gruppi religiosi che hanno così aderito alle proteste.

La novità del movimento

Sulla novità rivoluzionaria del movimento interviene Paola Rivetti, docente di scienze politiche presso l’Università di Dublino: “Si tratta di qualcosa di molto differente dall’Onda Verde: quello era un movimento che ancora credeva possibile una riforma dello Stato. Le generazioni che scendono in piazza oggi, invece, sperano in qualcosa di radicalmente diverso”.

Ci troviamo davanti non a un movimento anti-velo e anti-Islam ma a un “movimento pro-scelta, femminista e anti-patriarcale che riesce a raccogliere la solidarietà di tutti e che parla a tutti”. La definizione che ne dà la studiosa è di un “movimento intersezionale come quelli propri di quest’epoca che mettono in luce e sottolineano le intersezioni di diverse gerarchie di oppressione contestando l’ordine sociale e politico che queste creano”.

Patriarcato è una parola chiave. “Queste proteste - prosegue Rivetti - indicano in maniera esplicita il collegamento che esiste tra l’autodeterminazione del corpo femminile e la costruzione dello Stato. Sul corpo delle donne passano, infatti, questioni giganti di politica internazionale e di definizione dell’identità nazionale. In Iran da lì passa anche la costruzione dello Stato-Nazione”.

Parisa Nazari, mediatrice culturale di origine iraniana, sottolinea: “Ci sono voluti quarantatré anni di sofferenza per le donne iraniane perché il mondo intero si accorgesse delle loro priorità. In questo periodo leggi e interpretazioni ciniche della sharia hanno tentato di trasformarle in cittadine di secondo livello. Oggi questa situazione non sta più bene non solo alle donne, ma anche agli uomini. Ed è la prima volta che una richiesta legittima e fondamentale delle donne viene percepita dalla popolazione a prescindere dal genere”. Da qui anche la lettura dello slogan delle piazze iraniane: “La donna è il fulcro del cambiamento, la vita è quella che è stata attaccata costantemente da questo regime non ultimo con la legge sulla riproduzione che non permette più di usare metodi anticoncezionali o di abortire, la libertà è libertà per tutti e per la quale gli iraniani combattono dai tempi della rivoluzione costituzionale di inizio Novecento e che inevitabilmente passa per la libertà femminile”.

La solidarietà e l'impegno della Cgil

D’altro canto Mabel Grossi, dell’area politiche europee e internazionali della Cgil, dopo aver ricordato l’impegno del sindacato a sostegno di chi in questi anni si è battuto per i diritti in Iran, mette in evidenza come “Il controllo sul corpo delle donne cammina di pari passo con la violazione di altri diritti e libertà, compresi quelli del lavoro e sindacali. Per questo al fianco delle donne iraniane ci sono tantissimi lavoratori e lavoratrici e organizzazioni sindacali indipendenti. A livello nazionale, europeo e internazionale – segnala Grossi - abbiamo organizzato, sostenuto e aderito a numerose iniziative”. Le convenzioni dell’Organizzazione internazionale del lavoro in Iran non trovano applicazione. “È esplicita la volontà di escludere le donne dal mercato del lavoro, anche se di fatto ci sono 6 milioni di iraniane capofamiglia, che tra l’altro lavorano perlopiù nel settore informale e quindi sono maggiormente esposte alla violazione dei diritti”.

Mentre Esmeralda Rizzi annuncia che il prossimo appuntamento per discutere della condizione femminile nel mondo sarà dedicato alle donne afghane il prossimo 15 novembre, è Lara Ghiglione, responsabile del dipartimento politiche di genere della Cgil, a concludere il confronto: “Quello che accade altrove non ci deve lasciare indifferenti. È in atto una regressione culturale globale che è sotto gli occhi di tutti e che riguarda l’autodeterminazione delle donne. Basti pensare al diritto all’interruzione di gravidanza. Pensiamo ai sedicenti democraticissimi Stati Uniti dove la Corte suprema ha dato la possibilità ai singoli stati di impedire la libertà di scelta delle donne, o ai Paesi dell’Est Europa e anche all’Italia dove il primo atto, simbolico, del nuovo governo è stato incardinare in Parlamento una legge per attribuire diritti civili all’embrione fin dal momento del concepimento. Combattere per la libertà delle donne e la loro autodeterminazione significa migliorare le condizioni di tutti: questa è la lezione appresa dagli uomini iraniani che oggi scendono in piazza insieme a figlie, mogli, madri e sorelle. Che la civiltà di un Paese si veda dalla libertà delle donne non è una frase fatta, è una realtà. Ed è vero che i diritti non sono mai acquisiti una volta per tutte, ma che dobbiamo vigilare perché non ci siano passi indietro”. Le ultime parole del seminario sono dedicate alla manifestazione per la pace in programma sabato 5 novembre a Roma, un appello a partecipare numerosi e un auspicio: che si aprano negoziati per la pace e che le donne - che pagano un prezzo altissimo in tutti i conflitti - possano avervi parte attiva.

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