L’Etf è la Federazione europea dei lavoratori dei trasporti, raggruppa 230 sindacati nazionali di 41 Paesi, in rappresentanza di 5 milioni di persone, tra cui anche la Filt Cgil. È il partner riconosciuto nell’ambito del dialogo sociale per il settore dei trasporti, quindi deve essere consultata dalla Commissione europea quando questa adotta azioni in materia di politiche sociali. Un interlocutore di peso, che rappresenta un numero di workers pari a due volte una città come Roma.

Tra i tanti fronti aperti, sui quali porta avanti battaglie e vertenze, c’è quello di Amazon, con tutto il portato di rivendicazioni che riguarda il colosso di Jeff Bezos, dentro e fuori i magazzini. Abbiamo intervistato la segretaria generale Livia Spera, in Italia per incontrare i rappresentanti della Cgil e della Filt nell’ambito di una serie di confronti che la confederazione italiana sta effettuando su questi temi con gli omologhi internazionali, tra cui anche Uni Global, per individuare strategie condivise e vincenti. “Cominciamo col dire che quanto è accaduto in Italia l’anno scorso, lo sciopero e l’accordo che ne è seguito, un successo costruito con costanza negli anni, è stato guardato da tutti con grande interesse”, esordisce Spera.

Un punto a favore dei lavoratori segnato dai nostri sindacati. È davvero visto come un successo?
Sì, è considerato un esempio da tutti, un risultato positivo anche abbastanza raro perché negli altri Paesi, a parte qualche accordo, non si è arrivati a un protocollo sulle relazioni industriali. Non a caso i sindacati italiani sono stai subissati da richieste di informazioni. L’aspetto più interessante e qualificante è che si è riusciti attraverso la lotta e il lavoro politico ad avere un approccio di filiera, difficile da costruire con Amazon e con le tantissime altre imprese che si comportano allo stesso modo. Questa conquista è avvenuta in piena pandemia, periodo che ha svelato il lato nascosto del commercio elettronico.

I mesi del lockdown e della crisi sanitaria sono stati un momento di svolta?
C’è stata una sorta di emersione dell’e-commerce, tutti i suoi aspetti sono diventati visibili. Mentre le persone avevano paura di uscire di casa e andare al supermercato, vedevano questi lavoratori correre in giro a consegnare pacchi. Gli addetti erano sotto pressione e i sindacati italiani hanno saputo agire in un contesto davvero difficile, dando voce a chi era in prima linea. In quei mesi tutti abbiamo capito quanto fosse importante questa forma di lavoro.

La battaglia, in Italia e nel resto del mondo, è solo iniziata. Quali sono i prossimi passi?
Il dibattito è ancora aperto: che cosa dobbiamo fare con questi giganti, a livello mondiale, dobbiamo cercare di distruggerli, di annientarli? L’approccio italiano è stato contrattuale, probabilmente perché i sindacati dei trasporti hanno capito che la via maestra era la contrattazione, capillare, partendo dai luoghi di lavoro. È questo processo che ha destato grande interesse, ma la vittoria non è arrivata all’improvviso, siamo consapevoli che ci sono voluti anni di lavoro. Come Etf abbiamo capito che vanno usati gli strumenti classici della lotta sindacale, lo sciopero, le azioni collettive, in un contesto diverso dalla fabbrica.

Quali sono le sfide che il sindacato deve affrontare?
Sicuramente c’è bisogno di rivedere i modelli di organizzazione in questi luoghi dove tradizionalmente il sindacato viene lasciato fuori e la politica del management scoraggia ogni sindacalizzazione. Abbiamo a che fare con lavoratori che non rimangono in azienda per vent’anni, perché Amazon ha un turn over molto elevato. Quindi, qual è il modello adatto a rappresentare e difendere questa nuova working class, per avere iscritti e mantenere solida la base, soprattutto dove non c’è contrattazione di settore come nel Regno Unito e nei Paesi dell’Est?

Ma a livello europeo c’è un’interlocuzione con Amazon?
No, e questa è una delle cose che i sindacati stanno chiedendo. Perché se il sistema di regole non è uniforme, se non c’è unità nel rispetto delle norme e dei contratti, questo crea una sorta di dumping e indebolisce la posizione dei Paesi dove sono stati ottenute condizioni migliori per i lavoratori. La nostra priorità come Etf è quindi arrivare a essere una controparte, parlare con una voce unica.

Le istituzioni europee si occupano di Amazon?
Le istituzioni europee dovrebbero essere un interlocutore valido su diversi aspetti. Sul fronte delle imposte tanto per cominciare: Amazon non paga le tasse che le spetterebbero, mentre noi riteniamo che ci debba essere un livello minimo di tassazione in tutta Europa, sono in gioco la giustizia fiscale e il dumping tra Paesi. Poi c’è la gestione del lavoro tramite algoritmo, che andrebbe regolata in tutta l’Unione. La direttiva presentata a dicembre, che riguarda i lavoratori delle piattaforme e anche quelli della logistica, è una sorta di autoregolazione delle imprese che usano l’intelligenza artificiale ma non ha una forte rilevanza per i lavoratori, che non hanno alcuna protezione legislativa e non sono informati adeguatamente. E poi c’è la filiera dei trasporti, la consegna dai magazzini alla casa del cliente, cioè l’ultimo miglio, ma anche il trasporto delle merci, settore in cui le condizioni sono peggiorate.

Stiamo parlando dell’arrivo dei prodotti ai magazzini?
Esatto. Il trasporto merci su strada è basato su un sistema di appalti e subappalti assegnati con una sorta di aste che hanno un prezzo minimo. Amazon deve rispondere delle condizioni di lavoro applicate dalle imprese che trasportano le merci, deve essere responsabile di tutta la filiera dell’approvvigionamento, un’iniziativa che portiamo avanti come Etf. Questo principio deve valere per tutti: se Ikea produce in Cina, i beni devono essere realizzanti rispettando le condizioni di lavoro. E va applicato alle grandi imprese che trasportano enormi quantità di merci, dall’alimentazione ai mobili.

In diversi Paesi è stato posto l’accento sulla sostenibilità delle consegne a domicilio, che congestionano il traffico, contribuiscono all’inquinamento delle città, in alcuni casi intralciano il trasporto pubblico locale. Come viene affrontato questo tema?
C’è una contraddizione. Da un lato incentiviamo i cittadini a usare i mezzi pubblici, chiediamo che ci siano più tram, autobus e metropolitane, ma dall’altro aumentiamo la congestione delle città, con i driver che devono consegnare 200 pacchetti al giorno, parcheggiano in doppia fila, a volte bloccano la circolazione. Questo crea un conflitto tra i lavoratori che rappresentiamo. Un dibattito a livello europeo però ancora non è stato aperto. Poi c’è la questione del costo del trasporto, che deve sempre esserci, non può essere gratuito.

Abbassare il prezzo della consegna, fino ad annullarlo, è stata una delle chiavi del successo di Amazon.
Dobbiamo imporre a queste multinazionali di dare il giusto prezzo al trasporto. Se compro una maglia e la pago 15 euro, e mi viene recapitata gratuitamente, questo metterà pressione alla persona che consegna, che non avrà un salario giusto e condizioni adeguate. Consegnare in modo rapido e gratis e consentire di rimandare indietro la merce significa mettere sotto pressione il lavoratore, che alla fine è quello che paga. Non esiste il trasporto gratuito, deve avere un prezzo: chi trasporta deve internalizzare i costi legati all’inquinamento ma anche i costi sociali. Non posso permettere che un pacchetto sia mandato a 1 centesimo o gratis, come spesso accade, perché questo vuol dire che il lavoratore viene pagato 20 centesimi a pacchetto. Di questo però non si parla.

Neppure l’Europa se ne fa carico?
L’Unione europea guarda al cittadino soprattutto come consumatore, di cui tutela i diritti, e non come lavoratore. Nel caso del commercio elettronico o di qualsiasi altro trasporto, la politica europea è sempre stata di dire: il prezzo deve diminuire, il trasporto deve essere più accessibile, liberalizziamolo, privatizziamolo e questo porterà un beneficio al consumatore e al viaggiatore. Adesso bisognerebbe dire: facciamo un passo indietro, e anche se l’Europa si regge sulla legge sulla concorrenza, fissiamo un prezzo minimo dei trasporti. Non posso pagare un biglietto aereo 10 euro, c’è un costo ambientale che va internalizzato. Purtroppo però non c’è uno strumento politico per farlo. Non possiamo opporci alla diffusione del commercio elettronico o chiudere Amazon, ma queste attività devono essere fatte in modo etico e sostenibile per la società. Adesso non sono sostenibili. Dobbiamo fare in modo che il lavoro sia retribuito in modo corretto, che i contratti vengano applicati, le condizioni di salute e sicurezza rispettate. E far capire alle istituzioni che questo modello di impresa deve adeguarsi al benessere e all’interesse generale della società.