Se ne parla sempre di più, in tante parti del mondo. Poco, troppo poco, in Italia. Recentemente è stata una grande multinazionale come Panasonic a riaccendere l'attenzione globale, dando ai suoi dipendenti delle sedi giapponesi la possibilità di lavorare quattro giorni alla settimana e di far partire il weekend dal giovedì pomeriggio. Il tutto a parità di salario. “Dobbiamo sostenere il benessere dei nostri dipendenti”, ha detto il ceo di Panasonic, Kusumi Yuki. Ma quello del colosso nipponico dell'hi-tech è solo l'ultimo di una ormai consistente serie di casi. Microsoft Giappone aveva lanciato la sperimentazione di una settimana flessibile già nel 2019 e con risultati più che incoraggianti: lavoratori più felici e produttività cresciuta del 40 per cento.  

Adesso l'idea di una "4-day workweek", una settimana lavorativa di quattro giorni, si sta facendo strada in molti Paesi. È nata persino una campagna globale "4 Day Week Global" (www.4dayweek.com) che “incoraggia aziende, dipendenti, ricercatori e governi a giocare ognuno la propria parte per creare un nuovo modo di lavorare, che migliori la produttività, la salute di lavoratrici e lavoratori, rafforzi famiglie e comunità, combatta le disuguaglianze di genere”. Nella seconda metà del 2022 partirà un progetto pilota di sei mesi, una sperimentazione della settimana su quattrogiorni a parità di salario, che vedrà coinvolte diverse realtà aziendali (tra cui anche nomi importanti come Canon) in cinque Paesi anglosassoni: Gran Bretagna, Usa, Irlanda, Australia e Nuova Zelanda. 

Ma c'è un Paese che la sperimentazione sulla riduzione di orario a parità di salario l'ha già conclusa, trasformandola poi in un accordo sindacale vero e proprio: l'Islanda. Qui il sindacato BSRB, la federazione dei lavoratori pubblici, si è posto già dal 2004 l'obiettivo di ridurre l'orario di lavoro a parità di salario. Risultato raggiunto attraverso uno “storico” negoziato nel 2020, che ha portato a tagliare l'orario di lavoro fino anche a otto ore settimanali (da 40 a 32) per lavoratrici e lavoratori pubblici (specialmente per quelli che lavorano su turni), senza toccare la paga mensile. Così, dal Primo Maggio 2021 (data certamente non casuale) circa il 15 per cento della forza lavoro islandese è impiegata in una settimana di 4 giorni (o gode di una riduzione di orario equivalente). Parliamo non solo di impiegati d'ufficio, ma di polizia, infermieri, operatori socio-sanitari, educatrici, agenti doganali, etc. 

Accordi simili si sono poi estesi anche al settore privato e hanno già portato a riduzioni di orario per lavoratrici e lavoratori del commercio, del settore finanziario e del turismo, mentre per gli addetti dell'industria e della manifattura la riduzione di orario viene contrattata a livello aziendale. “Per il nostro Paese si tratta della più importante riforma dell'orario di lavoro dall'introduzione delle 40 ore settimanali, ormai mezzo secolo fa – rivendicano dal sindacato islandese BSRB – Riforme come questa non arrivano facilmente. È stato necessario molto duro lavoro, molta pressione e molta lotta per ottenere il cambiamento del sistema. Come altre idee, anche questa è partita inizialmente dalla nostra base, per diventare rapidamente la priorità assoluta del nostro sindacato”. 

I primi riscontri sull'esperimento islandese sono estremamente positivi. Secondo il report Going Public: Iceland’s journey to a shorter working week realizzato da Alda (Association for sustainable democracy) insieme al think-tank britannico Autonomy, su un campione di 2.500 lavoratrici e lavoratori islandesi (circa l'1 per cento dell'intera forza lavoro nel Paese), la produttività e i servizi erogati sono rimasti uguali o sono addirittura cresciuti nella maggior parte dei luoghi di lavoro. Al tempo stesso, il benessere di lavoratrici e lavoratori è aumentato, come testimoniano diversi indicatori: dalla percezione dello stress e del burnout, alla salute in generale e all'equilibrio vita-lavoro. E ci sono riflessi positivi persino sulle emissioni di carbonio, tagliando un giorno di pendolarismo per coloro che non possono lavorare a casa. Bjarkey Olsen Gunnarsdóttir, parlamentare islandese della sinistra verde — una delle forze attualmente al governo del Paese — ha affermato che la riduzione dell'orario di lavoro “dà alle persone più libertà, flessibilità e controllo sulle ore a disposizione nella giornata, che non sono mai troppe. Dovremo continuare questo viaggio – ha aggiunto – e penso che il prossimo passo dovranno essere le 30 ore lavorative settimanali”. 

Si dirà: ok, ma l'Islanda è l'Islanda e non si possono fare paragoni con un Paese molto più grande e complesso come l'Italia. Un'obiezione sensata. E allora guardiamo altrove, alla Spagna per esempio. Anche nel vicino Paese iberico il tema è al centro del dibattito politico e una sperimentazione della “jornada laboral de cuatro días o 32 horas” partirà entro il primo trimestre 2022. Il governo ha messo 10 milioni di euro a bilancio per quest'anno (50 nel triennio) per dare la possibilità a circa 160 imprese e 3.000 lavoratrici e lavoratori di provare la settimana corta a parità di salario. Pepe Álvarez, il segretario generale dell'Ugt, uno dei più importanti sindacati spagnoli, ha definito la settimana lavorativa di quattro giorni come una questione “assolutamente imprescindibile”. “Ai giorni nostri – ha detto – con la rivoluzione tecnologica che stiamo vivendo, il tempo che serve a produrre un bene o un servizio è inferiore a quello che era necessario alcuni anni fa. E questo non può che tradursi in una riduzione dell'orario di lavoro”. 

E in Italia? Poco, molto poco. Ci sono due aziende internazionali con sede a Milano che, di propria iniziativa, hanno adottato la settimana su quattro giorni a parità di salario: la Carter&Benson, che si occupa di consulenza strategica, e la Awin Italia, attiva nel campo del marketing. Ma parliamo appunto di casi isolati, mentre il dibattito sul tema è marcatamente assente, almeno dai canali mainstream. E questo nonostante, in base ai dati Ocse pre-pandemia, l’Italia sia uno dei Paesi europei dove, in media, si lavorano più ore alla settimana. Addirittura sette in più rispetto alla Germania: in pratica, una giornata di lavoro extra. Eppure, i risultati si capovolgono in termini di produttività. Senza considerare il fatto che la riduzione dell'orario di lavoro, a parità di salario, è “una leva per redistribuire ricchezza e aumentare l'occupazione”, come affermava qualche anno fa il presidente dell'Inps, Pasquale Tridico. In Italia l'ultima riduzione dell'orario di lavoro risale al 1969, fu frutto di una lunga battaglia sindacale e portò negli anni successivi a un sensibile aumento dell'occupazione. Oltre mezzo secolo e una pandemia dopo forse si può tornare a discuterne. 

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