Le pressioni per aumentare i salari nelle economie sviluppate diventano un punto critico per l’inflazione
Financial Times, 21 ottobre 2021

Incoraggiati dalla carenza di manodopera e dall’aumento del costo della vita, sempre più lavoratori si confrontano con i datori di lavoro sull’aumento della retribuzione. Dallo sciopero dei netturbini a Brighton, sulla costa meridionale dell’Inghilterra, alle migliaia di lavoratori in sciopero della casa produttrice americana di trattori, la John Deere, le controversie salariali stanno diventando un punto cruciale per gli investitori e i politici mentre le economie sviluppate si stanno riprendendo dalla pandemia. 

Incoraggiati dalla carenza di manodopera, dall’aumento dei prezzi dell’energia e del costo della vita, i lavoratori si stanno battendo per chiedere agli imprenditori di aumentare i salari. Questo mese, uno dei più grandi sindacati tedeschi ha chiesto di aumentare il salario del 5,3%.

Alcuni temono che le pressioni in aumento volte ad aumentare i salari possano scatenare una spirale inflazionistica stile anni ’70 con un aumento dei tassi di interesse che frenano la crescita dei mercati azionari. La settimana scorsa, il Fondo Monetario Internazionale ha avvertito che le banche centrali dovranno essere “molto, molto vigili” sull’aumento dei costi energetici e di altri costi che contribuiscono ad aumentare i salari e i prezzi di base.

Altri ritengono che l’aumento dei salari stagnanti e un riequilibro del reddito a favore del lavoro, dopo cinque anni di aumento dei prezzi delle attività e di elevati rendimenti del capitale, sia dovuto. Il primo ministro giapponese, Fumio Kishida, che potrebbe essere rieletto nelle elezioni di questo mese, ha persino promesso di concedere agevolazioni fiscali alle imprese che aumentano la retribuzione dei lavoratori.

“Il capitale umano è diventato semplicemente un po' più costoso”, ha affermato il capo economista della ING, Carsten Brzeski, che sostiene che con il pensionamento dei figli del baby-boom e la ripresa delle catene di fornitura, le pressioni salariali già in corso prima della pandemia diventeranno più intense. Ad oggi, però, le prove che i salari siano aumentati sono, nel migliore dei casi, contrastanti. Persino nei paesi in cui stanno nascendo le pressioni salariali, i salari potrebbero non aumentare affatto con l’inflazione, almeno per ora. Le pressioni più evidenti sono quelle negli Stati Uniti. La spesa al consumo è sostenuta, ma la forza lavoro conta 4 milioni di posti di lavoro in meno rispetto ai 165 milioni di posti di lavoro prima della pandemia, e i redditi orari medi stanno aumentando ad un ritmo annuo del 4,5%.

Alan Detmeister, economista della UBS ed ex dipendente della Federal Reserve, sostiene che “le imprese hanno bisogno della forza lavoro per soddisfare la domanda e se (i lavoratori) non rientreranno a lavoro, allora assisteremo ad un aumento maggiore dei salari”. Persino ora, la maggior parte degli aumenti salariali si concentrano nei settori caratterizzati da salari bassi. Ad esempio, la decisione di Amazon di pagare i magazzinieri 18 dollari l’ora ha portato altri datori di lavoro di grandi imprese ad aumentare la paga base.

Per di più, la crescita dei salari ha appena superato l’inflazione dei prezzi al consumo, al momento superiore al 5% da due mesi. I salari nell’ultimo anno hanno registrato un calo in termini reali. Il Fondo Monetario Internazionale ha affermato, lo scorso mese, che la crescita dei salari negli Stati Uniti rimane, ad oggi, “all’interno di intervalli di valori normali”. Anche nel Regno Unito stanno nascendo pressioni salariali, e la una carenza di camionisti è solo l’esempio più lampante della carenza di manodopera che va dalle catene di fornitura agli equipaggi cinematografici: la Banca d’Inghilterra ritiene che la crescita dei redditi medi del 4% abbia superato il livello pre-pandemia, mentre i dati aziendali indicano che sempre più datori di lavoro aumentato la retribuzione per attrarre lavoratori. Ciononostante, come avviene negli Stati Uniti, l’aumento salariale sembra concentrarsi nei settori caratterizzati da retribuzione bassa, soprattutto nel settore della logistica e dell’ospitalità in prossimità della frenesia natalizia.

Le pressioni salariali nel resto del mondo sono contenute, persino nei settori in cui i datori di lavoro faticano ad assumere personale.

Secondo i dati in tempo reale forniti dal sito per offerte di lavoro Indeed, i posti di lavoro vacanti in Australia stanno aumentando ad un ritmo più veloce degli Stati Uniti, del Regno Unito o del Canada. Tuttavia, la riunione di ottobre della banca centrale ha concluso che la crescita dei salari è "modesta", e le carenze di manodopera non comportano un aumento dei salari per i piani aziendali.

Anche in Giappone i salari continuano a resistere a un mercato del lavoro rigido. Sono rimasti quasi piatti per trent’anni e, secondo gli ultimi dati di agosto, i salari sono aumentati, nell'ultimo anno, solo dello 0,2% in termini reali. Nonostante l'impegno del primo ministro Kishida di aumentare i salari, gli analisti dubitano che possa cambiare molto in un paese stretto nella morsa della deflazione pressoché permanente.

Quanto alla zona euro, ci sono pochi segnali di un aumento dei salari, anche se la disoccupazione è scesa, ritornando ai livelli minimi pre-pandemia e il numero di persone che ricevono la copertura dei programmi statali di aiuti al lavoro è diminuito sensibilmente. Questo mese, il principale sindacato tedesco delle costruzioni, IG Bau, ha chiesto un aumento salariale del 5,3% per 890.000 lavoratori del settore. Ha poi concordato un aumento del 3,3% per l'anno prossimo e del 2% per il 2023. Per Dirk Schumacher, capo della ricerca macro-europea della banca francese Natixis, questo "accordo moderato" indica che il sindacato "non è preoccupato che l'inflazione sia fuori controllo per l’intera durata dell'accordo".

Cinque dei migliori istituti economici del paese concordano sul fatto che l’inflazione non abbia provocato un'esplosione di rivendicazioni salariali, nonostante l'inflazione in Germania abbia toccato a settembre il livello massimo in 29 anni del 4,1%. La settimana scorsa hanno previsto che la crescita del costo del lavoro in Germania diminuirà, per passare dal 3,4% dello scorso anno 0,8% di quest'anno e a zero nel 2023.

Le banche centrali degli Stati Uniti e del Regno Unito stanno osservando la situazione attentamente. Andrew Bailey, il governatore della BoE, ha affermato il mese scorso che è "cruciale" distinguere se il Regno Unito sta conoscendo una variazione dei prezzi e dei salari che non si ripeterà, o "un aumento persistente del tasso divariazione". Analogamente, la Federal Reserve degli Stati Uniti ha avvertito, nell’ultima riunione, che la carenza di offerta economica e di personale potrebbe avere "effetti persistenti" sui prezzi e i salari.

Al contrario, la Banca Centrale Europea sembra più tranquilla. Philip Lane, il capo economista della Banca Centrale Europea, ha detto questo mese che "una variazione eccezionale del livello dei salari... non implica un cambiamento di tendenza nel percorso dell'inflazione di fondo".

Gli aumenti salariali sarebbero addirittura accolti favorevolmente dai politici dell'eurozona, ha detto Brzeski della ING, dato che andrebbero a compensare il calo dei redditi causato dall'aumento del costo della vita. Ma è "del tutto irrealistico" che gli aumenti salariali riflettano l’aumento dell'inflazione, ha aggiunto, "almeno non quest'anno".

Per leggere l'articolo originale: Wage pressures become inflationary flashpoint in developed economies

 

La giunta birmana rilascia gli oppositori sotto pressione
Le Monde, 20 ottobre 2021

In seguito alla decisione dell'Associazione delle Nazioni del Sud-Est Asiatico (Asean) di non invitare il generale birmano golpista, Min Aung Hlaing, a diversi vertici di fine mese, il regime militare birmano ha rilasciato 5.600 persone detenute dal colpo di stato di lunedì 18 ottobre, tra cui 4.300 in attesa di processo e almeno 16 giornalisti e 24 artisti.

Il video trasmesso dall'Agenzia Associated Press ha mostrato scene di gioia davanti al cancello della prigione di Insein a Rangoon, lunedì sera, quando è uscito un autobus giallo e i prigionieri hanno incontrato i loro familiari. La liberazione dei prigionieri è stata accompagnata dall’avvertimento che coloro che commetteranno un nuovo un crimine vedranno nuovamente reintegrate le accuse.

L'Associazione di assistenza ai prigionieri politici, con sede in Thailandia, ha contato finora 7.355 persone detenute nel paese e dice che sta "verificando" il numero dei detenuti. Un rappresentante dell'Associazione afferma: "Nelle due precedenti liberazioni di massa di aprile e giugno, il numero effettivo è stato inferiore a quello annunciato, in quanto il processo non è mai stato trasparente".

L'Asean, che raggruppa dieci paesi, aveva annunciato, il 15 ottobre, durante una riunione d'urgenza dei ministri degli esteri che il Myanmar (nome ufficiale della Birmania) non sarebbe stato rappresentato da un “esponente politico" al vertice annuale del 26 ottobre, organizzato in videoconferenza dal Brunei, e al vertice dell'Asia orientale del 28 ottobre, un incontro che comprende, oltre ai Capi di stato e di Governo dell'Asean, anche i capi di Stato e di Governo della Cina, India, Giappone, Russia, Australia e Stati Uniti.

Secondo il comunicato stampa dell’Asean, “i paesi membri hanno ricevuto una richiesta dal NUG il governo di unità nazionale, composto da ex dirigenti civili e parlamentari in esilio di partecipare ai vertici del 26 e 28 ottobre" e che "non è stato quindi possibile raggiungere un consenso per nominare un rappresentante politico". In questo gruppo di nazioni vincolate dal principio di non interferenza, i pochi paesi democratici, come Indonesia e Malesia, stanno mostrando un'impazienza crescente per la mancanza di cooperazione della giunta. Il 6 ottobre, il ministro degli Esteri malese, Saifuddin Abdullah, ha persino dichiarato che il suo paese è pronto ad aprire un dialogo con il governo di unità nazionale.

Per il generale Min Aung Hlaing, autore del colpo di stato del 1° febbraio, che si è proclamato capo del governo il 1° agosto, questo è uno smacco, in quanto è stato ricevuto, sei mesi fa, a Giacarta, dove l'Asean ha pubblicato con il suo consenso un "accordo di intenti in cinque punti" in risposta alla crisi birmana. C'è voluto del tempo, il mese di agosto, perché un inviato speciale dell'Asean fosse accettato da tutti. Il tentativo di mediare del ministro degli esteri del Brunei, Eryth, ha subito incontrato un ostacolo: il rifiuto della giunta di lasciarlo incontrare i dirigenti in prigione, Aung San Suu Kyi, l'ex consigliere di Stato, e Win Myint, l'ex presidente, "accusato di aver compiuto un crimine", è stato un grande ostacolo ai suoi sforzi di mediazione. Tuttavia, la testimonianza dell'avvocato dell'ex presidente, Win Myint, in un'udienza del 12 ottobre, secondo cui i militari avevano cercato di farlo dimettere per motivi di salute poco prima del colpo di stato, ha ulteriormente indebolito la pretesa della giunta di aver preso il potere nel quadro della Costituzione in nome di sicurezza nazionale.

Per Sophie Boisseau du Rocher, ricercatrice presso l'Istituto francese di relazioni internazionali, "il disprezzo sprezzante di Min Aung Hlaing nei confronti degli sforzi dell'Asean è stato tanto più grave perché i paesi occidentali hanno fatto pressione all'ONU e i membri dell'Associazione hanno bisogno di loro per uscire dal crollo economico provocato dal Covid per non cadere nei circuiti della dipendenza dalla Cina.

Gli Stati Uniti, che hanno inviato una delegazione nella regione il 17 ottobre, guidata dal consigliere del Dipartimento di Stato Derek Chollet, pungolano di continuo l'Asean dietro le quinte, insieme al Giappone e all'Unione europea, sulla questione della Birmania. “La pressione è stata molto forte e il costo diplomatico stava diventando troppo alto", spiega l'esperta, che ritiene che "la pressione sia stata troppo grande” perché “l'organizzazione e i suoi membri rimanessero fondamentalmente impotenti a causa delle loro stesse debolezze e incapacità".

Anche se la giunta sta cedendo, non nasconde la sua rabbia. Nella dichiarazione rilasciata il 16 ottobre, il ministro degli Esteri ha detto che il Myanmar è “molto deluso" e "si oppone con forza" alla decisione "assunta al di fuori del consenso". Il generale Min Aung Hlaing ha contrattaccato con un discorso televisivo di lunedì, nel quale ha detto che alcune delle richieste dell'Asean sono "impossibili da soddisfare". Ha, inoltre, criticato le richieste fatte al suo governo di ripristinare la stabilità, mentre "i gruppi di opposizione si impegnano nel terrorismo, nel furto e nelle uccisioni".

Dall'appello lanciato dal governo di unità nazionale alla resistenza armata, del 7 settembre, l'esercito birmano sta facendo fronte ad attacchi su diversi fronti e sta registrando defezioni tra le sue file. Per Boisseau du Rocher, "l'altro fattore che ha pesato sulla decisione dell'Asean è stato ammettere che il colpo di stato è fallito e che c'è il rischio crescente di una guerra civile”. Anche le diverse iniziative dietro le quinte del governo di unità nazionale stanno finalmente dando i loro frutti.

Per leggere l'articolo originale: Sous la contrainte, la junte birmane libère des opposants

 

È un errore contrapporre la distribuzione mondiale dei vaccini contro il Covid -19 alle raccomandazioni per il richiamo vaccinale
Le Monde, 19 ottobre 2021

L’accesso equo ai vaccini e la protezione dei più vulnerabili non sono obiettivi in contraddizione e sono tutti legittimi, sottolineano scienziati e medici, tra questi Françoise Barré-Sinoussi, a nome del gruppo di riflessione Santé Mondiale 2030 e premio Nobel per la medicina per la scoperta dell'HIV

Secondo il sito OurWorldInData, alla data del 6 ottobre, il 46% ella popolazione mondiale è stata vaccinata completamente contro il Covid- 19 e oltre 6.3 miliardi di vaccini sono stati somministrati nel mondo. Un successo innegabile sul piano scientifico, tecnico e politico. È all’interno di questo contesto che bisogna valutare i dati pubblicati dal centro africano per il controllo e la prevenzione delle malattie (African CDC), in base ai quali, ad oggi, soltanto il 4,3% della popolazione africana ha ricevuto la dose completa del vaccino. L’Africa non sembra, quindi, in grado di raggiungere l’obiettivo fissato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità di vaccinare il 40% della popolazione africana entro la fine dell’anno, dal momento che, secondo l’ufficio regionale dell’OMS, mancano 500 milioni di dosi di vaccino. Questo scarto considerevole (oltre il 45% della popolazione mondiale è stata vaccinata contro il 4% degli africani) è inquietante sul piano morale, in quanto soltanto i più ricchi sarebbero protetti dal virus, cosa che sul piano epidemiologico non ha senso, perché i virus non conoscono frontiere e la loro diffusione favorisce l’emergere di varianti, e sul piano politico mette in dubbio la solidarietà espressa dai leader più influenti del pianeta se, poi, questa solidarietà non si traduce in azione. Questo deve essere, quindi, denunciato.  Nelle ultime settimane, i paesi ricchi sono stati criticati per organizzare, in questo contesto, una campagna per il richiamo vaccinale, la cosiddetta “terza dose”. Crediamo che sia sbagliato impostare il dibattito in questo modo contrapponendo la legittima distribuzione dei vaccini nel mondo, questione etica e politica, alle raccomandazioni di una dose vaccinale di richiamo nei paesi che hanno già portato a termine una buona percentuale di persone vaccinate, a condizione che questa terza dose sia giustificata sul piano scientifico, in considerazione dell’età e della morbilità della popolazione interessata.

Pressione internazionale

Lo studio realizzato in Israele (Yaïr Goldberg et col., New England Journal of Medicine, 15 settembre 2021) ha dimostrato che la protezione fornita dal vaccino contro il Covid – 19, soprattutto contro la variante Delta, diminuisce in modo significativo sei mesi dopo la vaccinazione. Ecco perché si rende necessaria la terza dose per rafforzare le difese immunitarie. Gli studi mostrano che questo è quanto accade quando si completa il programma vaccinale. La somministrazione della terza dose dovrebbe essere prevista ugualmente per le popolazioni vulnerabili dei paesi con risorse limitate.  Contrapporre la copertura vaccinale molto bassa in Africa e nei paesi con risorse limitate alla terza dose per i più vulnerabili è ancora più ingiustificato dal momento che il mondo non si trova più in una situazione di carenza di vaccini come lo era all’inizio del 2021.

Le dosi di vaccino prodotte dovrebbero coprire i bisogni dei paesi più poveri e permettere una terza dose altrove, a condizione che questa terza dose non riguardi la popolazione generale e sia destinata ai più vulnerabili. La pressione internazionale affinché vi sia un accesso equo ai vaccini ha avuto fortunatamente un impatto significativo. Joe Biden e Emmanuel Macron hanno annunciato che i loro paesi avrebbero raddoppiato il numero di donazioni internazionali di vaccini, e il presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha annunciato la decisione dell'Unione Europea di donare altri 200 milioni di dosi. Questi aiuti, anche se non rientrano in una misura di tipo strutturale, ammonterebbero a centinaia di milioni di dosi e dovrebbero accelerare la copertura dell’immunizzazione in Africa e in altri paesi dove è in ritardo. Anche se il numero di casi ufficialmente dichiarati rimane relativamente basso nel continente africano, dei recenti studi realizzati in Mali, Kenya e Repubblica Democratica del Congo mostrano che la prevalenza dell'epidemia in Africa è più alta di quanto si pensasse. Le campagne vaccinali in corso di realizzazione devono, prioritariamente e senza tardare, coprire le popolazioni più vulnerabili e gli operatori sanitari. Ma il potenziamento della campagna vaccinale nei paesi meno ricchi non può limitarsi a fornire più dosi di vaccino. La somministrazione dei vaccini richiede capacità tecniche e risorse umane che troppo spesso mancano a causa delle carenze nell'organizzazione logistica (fornitura delle dosi verso zone periferiche, disponibilità di un numero sufficiente di siringhe e aghi sterili, esistenza di una catena del freddo, ecc.)

Visione semplicistica

Lo sforzo della solidarietà internazionale non dovrebbe quindi concentrarsi solo sui vaccini, ma sul sostegno ai sistemi sanitari. Inoltre, richiede una riflessione di lungo periodo su tutta la catena di produzione e di approvvigionamento (negoziati con il settore privato), così come sulle strutture sanitarie (risorse umane, capacità tecniche, organizzazione). La questione della vaccinazione globale per il controllo sostenibile del Covid-19 è, pertanto, complessa e non può essere ridotta alla dimensione aritmetica della distribuzione di dosi tra paesi ricchi e poveri. Continuare con questa visione semplicistica significa, inoltre, eludere il dibattito politico su una questione essenziale: la produzione di vaccini contro il Covid-19 e di qualsiasi altro strumento di prevenzione e cura deve rispondere ai bisogni globali e non può essere lasciata alla sola discrezione degli attori del mondo dell’industria farmaceutica. Devono essere attivati tutti i mezzi disponibili per raggiungere questo obiettivo. Questo dibatto richiede di ripensare alla gestione della proprietà intellettuale e alla produzione di farmaci innovativi in modo da ripristinare la sovranità nazionale e regionale sui farmaci "essenziali". Questo dovrebbe permettere di promuovere la produzione di vaccini in tutto il mondo, con l'aiuto del trasferimento di tecnologia, in modo che possiamo essere tutti protetti nel lungo periodo.

Per leggere l'articolo originale: C'est une erreur d'opposer la répartition mondiale des vaccins anti-Covid-19 et les recommandations d'une dose de rappel

 

I posti di lavoro verdi devono andare a vantaggio di tutti
The Guardian, 19 ottobre 2021

La gente non ha bisogno di slogan: ha bisogno di risorse e di responsabilizzazione in modo da poter garantire posti di lavoro verdi di qualità. Se vuoi sapere davvero che cos’è la giusta transizione, non iniziare dai discorsi ufficiali della Cop26. In teoria, non devi neanche chiederlo a me. Chiedilo a coloro che hanno più bisogno della giusta transizione.

Chiedilo ad un adolescente del Galles del sud, dove i posti di lavoro nelle miniere di carbone non sono stati sostituiti da lavori alternativi e i tassi di disoccupazione sono tra i più alti del Regno Unito. Chiedilo ad un lavoratore di una piattaforma petrolifera che viaggia da 15 anni in elicottero per raggiungere il posto di lavoro e deve pagare 2.000 sterline per un altro corso di formazione sulla sicurezza dell’elicottero per poter lavorare su una turbina di un impianto eolico.  Chiedi all’autista di un Eurostar che non sa se il treno che sta guidando funzionerà tra due mesi. Chiedi, se puoi, ad un uiguro costretto dalle autorità cinesi a lavorare in un campo di rieducazione per produrre il polisilicio per i pannelli solari.

Possono raccontarti dell’ingiusta transizione, il contrario di come vogliamo cambiare i nostri stili di vita e le nostre economie per raggiungere l’obiettivo di zero emissioni nette. La giusta transizione non deve diventare uno slogan della politica globale, ridotto ad un punto di incrocio tra le preoccupazioni per l’ambiente e le preoccupazioni sociali, o alle promesse vaghe di formazione qualificata. Una vera giusta transizione fa in modo che le persone non perdano le loro vite e i livelli di vita e che le loro condizioni di vita non siano cambiate dall’azione climatica. Vorremmo, ad esempio, sapere dei 600.000 lavoratori del settore industriale del Regno Unito e delle catene di fornitura, il cui futuro del lavoro dipende dal governo e dagli investimenti nell’industria per riorganizzarla e decarbornizzarla.

Ecco chi sta costruendo la giusta transizione. È l’operaio scozzese del cantiere che sta conducendo una campagna per costruire le fondamenta delle turbine dell’impianto eolico offshore in direzione della loro città. È l’ingegnere auto di Birmingham che combatte per trasformare la fabbrica di auto in veicoli elettrici. È il lavoratore dell’acciaieria svedese che realizza il primo lotto al mondo di acciaio a emissioni zero di carbonio, che presto verrà utilizzato per produrre auto Volvo. È il postino, forse l’unico che ti ha consegnato questa mattina gli acquisti fatti online, che lavora con i suoi colleghi per gestire il passaggio ai veicoli elettrici dell’azienda postale britannica, la Royal Mail.

Oppure è il minatore sudafricano che marcia nelle strade per chiedere un piano per la transizione che dia a lei e alle sue colleghe un posto di lavoro non inquinante in un servizio pubblico dell’energia. Forse è l’insegnante della scuola elementare di tuo figlio a cui chiedere di cosa hanno bisogno per affrontare il caos climatico del futuro, mentre il programma scolastico nazionale non sta al passo del cambiamento.

Queste persone, tutte responsabili sindacali, forse non saranno sul podio della Conferenza Cop26 di Glasgow, ma sono tra i veri leader del clima nel mondo.

Che cosa ci chiedono? Innanzitutto, ci chiedono risorse. Per far sì che i posti di lavoro a rischio di oggi abbiano un futuro, i governi devono investire per costruire acciaierie, cantieri navali e porti, e catene di fornitura nazionali di avanguardia a zero emissioni di carbonio di cui hanno bisogno le industrie di domani.  Il TUC, Confederazione sindacale del Regno Unito, ha chiesto di realizzare investimenti nell’infrastruttura verde da 85 miliardi di sterline nei prossimi due anni. Dopo il primo passo compiuto con gli investimenti pubblici, seguiranno gli investimenti del capitale privato.

I governi devono investire anche nel settore pubblico. Devono assegnare maggiori risorse agli enti locali per isolare l’ambiente domestico per evitare dispersioni termiche e sostenere il piano per le emissioni zero del Servizio Sanitario Nazionale. Devono, inoltre, investire, nel mondo: i paesi industrializzati sono molto indietro sull’impegno di effettuare finanziamenti per il clima da 100 miliardi di dollari promessi al sud del mondo.

In secondo luogo, ci chiedono di poter dire la loro su come avviene la transizione. Il postino sa di cosa ha bisogno nei turni per le consegne del futuro. Il lavoratore della piattaforma petrolifera sa che tipo di formazione ha bisogno. Il minatore sa che cosa vuole quando la miniera di carbone chiude. È questa conoscenza che deve formare la transizione. Ogni posto di lavoro deve negoziare un accordo tra i sindacati e i datori di lavoro sulla natura e sul ritmo del cambiamento, e un piano per la protezione di posti di lavoro di qualità. Questo dovrà essere appoggiato da commissioni locali e nazionali, nelle quali i sindacati, i datori di lavoro e i governi dialogano e mettono a punto un piano comune per l’industria e le aree in cui vivono. La mancanza di programmazione e coordinamento nel Regno Unito è una delle ragioni principali per cui passiamo da una crisi all’altra.

La terza richiesta è rimuovere le barriere. Nessun lavoratore dovrebbe vedere precipitare il suo reddito o dover pagare per riceve una formazione se il suo posto di lavoro dovesse chiudere. E nessun lavoratore dovrebbe essere escluso dai lavori del futuro, sia a causa di metodi di assunzione di parte, della mancanza di aiuto ai genitori o ai disabili, o a causa del razzismo istituzionale. 

La quarta e ultima richiesta riguarda la qualità del lavoro. I posti di lavoro verdi devono essere posti di lavoro buoni. Se un’occupazione comporta un lavoro massacrante e mal pagato, se il lavoro è inaffidabile o dipende da un contratto precario, se il datore di lavoro non riconosce i sindacati e se i dipendenti devono pagare per la loro formazione, non c'è da meravigliarsi se i lavoratori non si mettono in fila per cambiare lavoro.

Qualsiasi lavoro può essere un lavoro buono. Se vogliamo che i lavoratori passino da lavori ad alto contenuto di carbonio a lavori a zero emissioni di carbonio, i movimenti per il clima devono aiutare i sindacati a lottare per condizioni e termini di lavoro e salari dignitosi. Quando sarà data risposta a queste quattro sfide, risorse sufficienti, ascolto delle voci dei lavoratori, smantellamento delle barriere, ogni lavoro verde sarà un lavoro buono, l'azione per il clima sarà fatta con le persone, e non sarà fatta per loro.

Allora mettiamoci in marcia. Unisciti a un sindacato. Cosa puoi fare nella tua comunità, nel tuo posto di lavoro, per sostenere coloro i cui posti di lavoro sono a rischio, e realizzare la giusta transizione di cui tutti abbiamo bisogno?

Anna Markova è corresponsabile del TUC per il clima e la politica industriale

Per leggere l'articolo originale: Green jobs must benefit everyone

 

La primavera sindacale degli Stati Uniti
El Pais, 18 ottobre 2021

La carenza di manodopera nei settori chiave e il peggioramento delle condizioni di vita causate dalla pandemia incoraggiano la mobilitazione del sindacato e dei lavoratori

Se non ci saranno imprevisti, i 60.000 lavoratori che danno forma ai sogni di Hollywood inizieranno a scioperare lunedì. Non sono gli unici lavoratori a scioperare negli Stati Uniti. Hanno iniziato lo sciopero o stanno per scioperare nei prossimi giorni anche 10.000 dipendenti della casa produttrice di trattori, la John Deere, 2.000 dipendenti di una società di appalti ospedalieri di New York, i 24.000 infermieri di una grande azienda ospedaliera e 1.400 lavoratori dei quattro stabilimenti di una popolare marca di cereali. Sono in tutto circa 100.000 iscritti al sindacato, è come se gli Stati Uniti stessero vivendo una primavera sindacale senza precedenti, dopo il calo degli iscritti negli ultimi decenni a causa della legislazione ostile e dei tentativi di organizzazione sindacale fatti fallire dalle aziende, mentre alla Casa Bianca c'è un sostenitore dichiarato della sindacalizzazione, Joe Biden.

Lunghi orari di lavoro, salari bassi, scarsi livelli di sicurezza nei luoghi di lavoro o disincentivazione al pensionamento, non sono, questi, gli unici elementi che influenzano questa rabbia e le rivendicazioni, né il logoramento subito da molti lavoratori essenziali durante la pandemia. L'offerta abbondante di lavoro, in particolare di lavori meno remunerativi, è la leva che ha permesso ai sindacati di agire. La domanda di lavoro ha eguagliato costantemente l'offerta di lavoro fino allo scoppio della pandemia, ma, secondo i dati pubblicati dal Dipartimento del Lavoro la scorsa settimana, con l'avvio della ripresa economica, i posti di lavoro vacanti ad agosto ammontavano a 10.4 milioni (mezzo milione di posti di lavoro in meno rispetto a luglio).

Hanno lasciato il posto di lavoro in questo mese non meno di 4.3 milioni di lavoratori statunitensi, quasi il 3% della popolazione attiva del paese, insoddisfatti delle condizioni di lavoro peggiorate a causa della crisi sanitaria, tra cui le garanzie insufficienti contro il Covid. I sindacati sperano di cavalcare la cresta dell'onda di questo momento per arrestare il declino progressivo degli iscritti. Secondo l'Ufficio di statistica, lo scorso anno era iscritto al sindacato soltanto l'11,3% dei lavoratori occupati. Gli scioperi degli insegnanti nel 2018 e nel 2019 hanno ravvivato, perdonate l'ossimoro, il sindacalismo americano.

Gli esperti del mercato del lavoro americano sostengono che la pandemia possa contribuire ad aumentare la forza dei sindacati, rafforzando il loro potere negoziale in un momento caratterizzo da una carenza preoccupante di manodopera in alcuni settori, dagli autisti di scuola-bus ai camionisti e ai portuali. Questi sono fattori determinanti, sono i due aspetti di un mercato del lavoro messo a dura prova dall'impatto della pandemia, i cui cedimenti strutturali hanno contribuito a inaugurare la lunga traversata nel deserto.

Mentre la neve di questa primavera copriva ancora i marciapiedi e la ripresa economica era appena iniziata, gli assistenti della Columbia University di New York, manifestavano, nei loro camici, nel campus universitario con cartelli sui quali si poteva leggere: “Uno sciopero che fa storia, chiediamo assistenza sanitaria”. Le proteste tenute in modo discontinuo sono avvenute nel campus universitario prestigioso della Columbia University, ma iniziative simili si sono tenute in altri campus universitari del paese, da Harvard a Boston, da Cornell all'Illinois. La mobilitazione del sindacato dei ciclofattorini di New York ha conquistato i primi diritti fondamentali nel paese grazie ad una normativa approvata a livello locale a New York. Il tentativo di alto profilo, fallito, dei lavoratori di un centro logistico di Amazon. Il principio e la pratica della contrattazione collettiva stanno guadagnando terreno in un paese incentrato sull'individualismo, e i sindacati non demordono dalla richiesta di aumentare il salario del 4% o del 5% di fronte alle aziende che offrono l'1% di aumento. Di fronte ad un mancato accordo, la parola sciopero non fa più paura.

Ma nessuno sciopero, nemmeno quello delle 24.000 infermiere della Kaiser Corporation in California, una delle più grandi aziende del settore della sanità, sarà così simbolico come il blackout di Hollywood, il primo dalla Seconda guerra mondiale. Lo sciopero dell'industria cinematografica è una rivoluzione interna: è una risposta alla pressione al ribasso che il fiorente mercato dello streaming sta esercitando sul vecchio modello di produzione. Dopo quattro mesi di negoziati, i principali sindacati del settore cinematografico sono giunti alla conclusione la scorsa settimana che gli orari non autorizzati e non retribuiti e i salari bassi, appena sopra il salario minimo di Los Angeles, hanno messo i tecnici del settore in una posizione di svantaggio.

In generale, questa effervescenza mostra anche le crepe di un modello in piena trasformazione, in cui il nuovo precariato è uguale a quello dei colletti blu, a quelli che fabbricano i trattori della John Deere, ai laureati che insegnano come assistenti nelle università, o lavorano negli ospedali. I dati relativi all'abbandono del lavoro di agosto, i più alti dal 2001, dimostrano che il numero dei posti di lavoro abbandonati ad agosto sono approssimativamente comparabili a quelli abbandonati nel settore della ristorazione e del commercio, e tra i lavoratori dei servizi o della sanità.

Secondo l'ufficio statistiche del Dipartimento del Lavoro, lo scorso anno ci sono stati 11 grandi scioperi (ciascuno sciopero ha interessato più di 1.000 persone) negli Stati Uniti. Consapevoli della carenza pressante di manodopera in certi settori, i 100.000 potenziali lavoratori in sciopero in questi giorni negli Stati Uniti hanno una carta vincente senza precedenti, inestimabile: non ci sarà, come lo è stato finora, una sola coda di lavoratori pronti ad accettare condizioni di lavoro ancora peggiori delle precedenti.

Per leggere l'articolo originale: La primavera sindical de Estados Unidos