Iniziata il 5 gennaio 1968, quando lo slovacco Alexander Dubček divenne segretario del Partito comunista di Cecoslovacchia, la primavera di Praga termina nella notte tra il 20 e il 21 agosto dello stesso anno con l'invasione da parte dell’Unione Sovietica e degli alleati del Patto.

Le truppe del Patto di Varsavia entrano in Cecoslovacchia per porre fine all’esperienza della Primavera di Praga, un periodo storico di liberalizzazione politica avvenuto durante il periodo in cui il Paese era sottoposta al controllo dell’Unione Sovietica, dopo gli eventi successivi alla seconda guerra mondiale e nell'ambito della guerra fredda. 

La stagione delle riforme termina bruscamente in quella notte di agosto, quando una forza stimata fra i 200.000 e i 600.000 soldati e fra 5.000 e 7.000 veicoli corazzati invade il Paese. 

“Son come falchi quei carri appostati - canterà Guccini - Corron parole sui visi arrossati, Corre il dolore bruciando ogni strada E lancia grida ogni muro di Praga. Quando la piazza fermò la sua vita, Sudava sangue la folla ferita, Quando la fiamma col suo fumo nero Lasciò la terra e si alzò verso il cielo, Quando ciascuno ebbe tinta la mano, Quando quel fumo si sparse lontano”.

“Il 21 agosto del 1968 - scriveva qualche tempo fa Celeste Ingrao su Strisciarossa - le mie vacanze erano già finite ed ero a Roma. Avevo 23 anni ed ero una fresca sposina. Naturalmente faceva caldo, molto caldo, e mio marito Marco, fra l’altro colpito da un fastidioso mal di pancia, non riusciva a dormire. Così verso le 4 di notte accese la radio - che a quei tempi le notizie in tempo reale si avevano dalla radio. Accese la radio e corse a svegliarmi: i russi hanno invaso Praga! Non ci volevo credere, ancora mezza addormentata provavo a illudermi che fosse solo un incubo. Mi pareva una cosa troppo enorme, impensabile, che andava oltre tutto ciò che di male potevamo pensare dell’Unione Sovietica. Ma naturalmente era vero. (…) Per noi, giovani sessantottini del Pci, fu un colpo terribile. La primavera di Praga era stata la nostra speranza, l’ultima speranza che dall’Europa dell’Est potesse venire qualcosa di buono e di bello, qualcosa in cui poter credere”.

Scriverà anni dopo Rossana Rossanda:

Non fu una pagina gloriosa per il Pci quella della Cecoslovacchia. Il "nuovo corso" era l’estremo tentativo di uscita dalla rigidità del sistema condotto da un partito comunista ancora forte, sostenuto da una intellighentia impegnata e da una fiducia popolare esente dalle spinte anticomuniste che si erano infiammate nel 1956 nella rivolta ungherese. Il Pci lo capì e lo sostenne fino all’invasione: allora parlò di "tragico errore", ma non decise quello "stacco" che avrebbe compiuto a freddo molto più tardi (…)  A fine agosto il Comitato centrale condannava il "tragico errore". Non un tragico errore, intervenne Luigi Pintor, ma una coerente conseguenza della politica sovietica. Era la prima uscita secca di quello che sarebbe diventato il gruppo del manifesto. Non ricordo se si votasse, non mi pare, certo Pintor fu bacchettato. Fuori dalla porta Pajetta chiedeva uno per uno a coloro che entravano: ma Dubček e Svoboda non hanno fatto bene ad affermare il compromesso? Che cosa pensi? Un anno dopo, nel settembre 1969, il manifesto mensile usciva con l’editoriale "Praga è sola" e cominciava il processo che avrebbe portato alla nostra radiazione a novembre. Berlinguer aveva cercato di evitarla, ma dopo quell’articolo ci si disse – il Pcus gli aveva chiesto di "onorare la cambiale". Non so quale; al XII Congresso, pochi mesi prima, mentre parlavo dell’invasione di Praga, la delegazione sovietica, diretta da Boris Ponomariov, s’era alzata ed uscita. Ma tre del manifesto, Pintor, Natoli ed io, fummo riammessi nel Comitato centrale: forse Berlinguer garantì a qualcuno che non avremmo fatto danni. Non approvò che uscisse la rivista ma non minacciò misure disciplinari; non nascose però il timore che qualsiasi presa di distanza da Mosca potesse dare spazio a una forte frazione filosovietica, come negli anni settanta fu quella di Lister in Spagna. Ma davanti a «Praga è sola» i Secchia, i Cossutta, e anche gli Amendola e i Terracini, trovarono che non eravamo tollerabili.