Accanto a un piccolo palazzo si stende improvvisamente un cumulo di macerie: in posizione verticale, o quasi, è rimasta solo la porta, con i suoi pomelli a forma di fiore. Le armature di ferro guizzano nell’aria e si annodano intorno a quel che resta dei muri. Più avanti, camminando, i resti di un’altra abitazione, nel cemento è rimasto impigliato un foulard. Per terra, poco più in là, ci sono dei giocattoli. In fondo alla strada un edificio in costruzione si erge verso un orizzonte arso, dove le case si diradano e la nervatura delle alture brulle sembra un disegno su carta gialla.

Siamo a al-Iswaiyya, un quartiere di Gerusalemme Est. È uno di quei casi in cui raggiungere la periferia ha il sapore di un viaggio che conduca assai più lontano. Sono anni, tanti anni, che in questa zona della città santa va in scena sempre lo stesso copione – una replica inflessibile, ossessiva, senza deroghe. È infatti in quest’area che il comune di Gerusalemme convoglia ogni anno una parte del budget, destinato alla demolizione delle case palestinesi costruite senza permesso.

Perché costruire case senza permesso, ci si potrebbe chiedere. La risposta è banale, perché ai palestinesi è negato il permesso di costruire: mentre i condomini israeliani sorgono ovunque senza soluzione di continuità, erodendo meticolosamente il suolo arabo dello stato, ai cittadini palestinesi non è concesso provvedere al fabbisogno abitativo minimo della comunità nel tessuto urbano della capitale. È così che si rivolge loro il malcelato invito a lasciare la città.

I permessi non ci sono e i cittadini palestinesi che hanno bisogno di una casa la costruiscono lo stesso, sapendo bene che potrebbe essere distrutta in qualsiasi momento.

Accade qualcosa di simile agli sgomberi dei campi rom ai quali ci hanno abituati le nostre amministrazioni comunali: le ruspe si presentano all’alba verso l’obiettivo del giorno e lo radono al suolo. Per far fruttare al meglio la somma stanziata dall’amministrazione comunale si scelgono preferibilmente case piccole, per buttarne giù un numero maggiore e moltiplicare gli spazi bianchi nella mappa, accelerare l’epurazione e favorire il cambio residenziale. In questo modo sono proprio le famiglie più povere ad essere maggiormente esposte al rischio di trovarsi, da un giorno all’altro, senza un tetto.

Una volta che la casa viene demolita, i suoi abitanti ne costruiscono il più presto possibile un’altra, perché se si arrendono e lasciano la città, assecondando il disegno del Comune, perdono per sempre il diritto di vivere a Gerusalemme. Nella fretta capita che tirino su una stanza, con il tetto in lamiera, una porta e una finestra, e tutto intorno si veda ancora il resto della casa di prima, quella che non c’è più.

Il pugno di ferro dell’amministrazione, l’inappellabile ostinazione delle ruspe alle prime luci del giorno, trascinano gli abitanti indesiderati in una lotta faticosa e logorante nella quale si specchia, come nel dettaglio più eloquente e folgorante di un racconto, la grande storia dell’occupazione e il destino sempre più risicato dello Stato che non c’è.

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