Dalla governance al mancato confronto con le parti sociali. Dal tentativo di dirottare le risorse perdendo di vista l'obiettivo della riduzione dei divari e della coesione. Dalla "fatica" della pubblica amministrazione depauperata di personale e competenze fino ai costi aumentati delle materie prime. Tante le ragioni che la vice segretaria della Cgil Gianna Fracassi individua per le difficoltà di realizzazione del Pnrr, ma serve "responsabilità e la consapevolezza che il Piano non è del governo di turno ma dell'Italia". Vincere questa sfida si può, si deve

La Corte dei conti e l'Europa segnalano un grave ritardo nell'attuazione del Pnrr. A cosa è dovuto questo ritardo? Governance, cambio di strategia tra Draghi e Meloni, farraginosità delle procedure?
Innanzitutto, lo dicemmo a Draghi, l’abbiamo ripetuto a Meloni, esiste un problema che riguarda la pubblica amministrazione. Nel corso degli ultimi due decenni, tra tagli e blocco del turnover, abbiamo semi-svuotato di personale enti locali e amministrazioni centrali. Siamo tra i Paesi, in Europa, con il rapporto peggiore tra dipendenti pubblici e cittadini, chi è in servizio ha un’età media che supera i 50 anni. I decreti che l’attuale governo ha varato non hanno fatto ciò che serviva: per rafforzare la capacità amministrativa e tecnica della “macchina pubblica” bisognava collocare competenze e risorse dove serve, a partire dal territorio.

E poi c’è il problema della governance.
È l’Europa a chiederlo, uno dei punti fondamentali di Nex Generation Eu è il dialogo sociale. Tutto il processo di governo e implementazione del Pnrr deve prevedere il coinvolgimento delle parti sociali, su questo proprio non ci siamo. Potrei fare molti esempi del mancato confronto: ad esempio entro il 30 aprile deve essere consegnato a Bruxelles il RepowerEu, programma aggiuntivo al Piano nazionale di ripresa e resilienza, manca meno di un mese e il confronto su questi temi non c'è assolutamente stato. Il protocollo che firmammo il 23 dicembre di due anni fa, quello che avrebbe dovuto istituire i tavoli di partenariato e avviare un confronto costante, è fermo, mentre – per fortuna – comincia ad avere gambe quello siglato lo scorso gennaio con l’Anci. Quindi a livello locale vengono istituiti i tavoli di partenariato, speriamo questo processo acceleri. Rimane il problema a livello centrale, dei singoli ministeri. Questo esecutivo ha scelto di accentrare molto e di cambiare l’assetto di governo del Piano definito da Draghi. Già questo inevitabilmente ha comportato e comporta ritardi, ma non è solo questione di tempi. Questo modello, la centralizzazione estrema, non solo del Piano ma anche degli altri fondi europei, senza il rafforzamento di tutta la filiera e dei territori è assai rischioso, il rischio fallimento è alto.

Parlando di filiera e pubblica amministrazione, che fine hanno fatto i concorsi che avrebbero dovuto riempiere di personale Comuni e Regioni?
I concorsi sono stati banditi, ma per posti a tempo determinato e con stipendi non proprio competitivi. Tecnici e professionisti che hanno trovato di meglio nel privato o non si sono presentati, pur avendo vinto il concorso, o appena hanno avuto occasioni più stabili e remunerati meglio hanno lasciato. È evidente che non si può immaginare di fondare la gestione e la realizzazione di un Piano così complicato e importante sulla precarietà. Lo dicemmo tre anni fa, occorreva – forse siamo ancora in tempo – istituire dei nuclei per l’attuazione del Pnrr a livello delle ex province, così da essere di supporto ai piccoli Comuni e avere una visione coordinata degli interventi. Ma esiste un’altra questione, che già all’epoca segnalammo. La maggior parte dei progetti è stata basata sui “bandi competitivi”: è proprio sbagliato perché ha favorito in qualche modo una fotografia distorta delle necessità. Ci sarebbe stato bisogno di un’idea più forte su quale direzione incanalare le risorse.

È mancata una visione complessiva su dove portare il Paese? Questa è una delle ragioni del ritardo?
Penso che questo sia il problema di fondo del Pnrr italiano. Tantissimi progetti, e questo era un po’ scontato visto che stiamo parlando di 191 miliardi più 30 del fondo complementare, con un'eccessiva frammentazione delle risorse. E soprattutto, il Piano non coglie appieno gli obiettivi che l'Europa pone rispetto alle scelte da fare. Dovrebbe rispondere ai bisogni di nuova occupazione, a un modello sostenibile dal punto di vista sociale basato sulle due grandi transizioni, quella ecologica e quella digitale. Nella realtà stiamo parlando in tanti casi di progetti presentati dalle regioni, dagli enti locali molto vecchi e forse neanche coerenti rispetto alle necessità. Lo denunciamo da tre anni, penso non si sia compreso appieno il senso del Piano né a livello centrale né a livello dei territori.

La riforma del Codice degli appalti era prevista tra quelle del Pnrr, riuscirà ad accelerare i progetti del Pnrr?
A parte il giudizio negativo che come organizzazioni sindacali abbiamo dato, torniamo indietro anche rispetto alla qualificazione degli appalti nel nostro Paese sia sul versante del lavoro – riduzione di diritti, salario e sicurezza causati dalla liberalizzazione del subappalto -, ma anche sul versante dei controlli è un arretramento. La verità è che si invoca la semplificazione delle procedure per accelerare la messa a terra delle risorse. È una scusa. Non voglio dire che semplificare non serva, ma ricordo che nel corso degli ultimi due anni si sono susseguiti decreti semplificazione che non hanno accelerato niente. Evidentemente il problema non è la semplificazione, ma difficoltà strutturali ad attuare una progettazione complessa: torniamo al problema non risolto di rafforzamento della capacità amministrativa. Tutto questo è molto grave, dover trovare sempre delle scuse per nascondere di non aver affrontato problemi strutturali o addirittura, come è stato fatto nelle ultime ore, dire che non siamo in grado di spendere queste risorse perché sono troppe. Ecco, queste le trovo francamente delle boutade. Le risorse non sono troppe, sono risorse necessarie al nostro Paese. Ci servono per fare quegli interventi che nei vent'anni precedenti non abbiamo fatto. In realtà quello che manca è la capacità di fare programmazione nel medio termine in una cornice coerente: penso ad esempio alla politica industriale mancante nel nostro Paese, che dovrebbe indirizzare su obiettivi condivisi, risorse non solo europee e interventi di riforma.

Uno degli obiettivi principali del Piano era, ed è la ragione delle tante risorse destinate all'Italia, la riduzione dei divari di territorio, di genere e tra generazioni. Su questo, più che di ritardi, forse è il caso di parlare di buco nell'acqua. Ci sono sindaci delle regioni settentrionali che chiedono di veder destinati a loro risorse che non si riescono a spendere nel Sud. Secondo te non rischiamo non solo di non centrare l'obiettivo della riduzione dei divari, ma di vedere depauperato proprio il pilastro delle infrastrutture sociali del Pnrr?
Trovo questi appelli di alcuni amministratori del Nord proprio sbagliati. È il contrario di quello che in una comunità nazionale si dovrebbe fare. Significa non aver compreso che il Piano non è per i singoli territori, ma per il sistema Paese, ed è per questo che il sistema dei bandi competitivi è sbagliato. La riduzione dei divari sociali e territoriali è uno degli obiettivi trasversali del Piano ed è la ragione della consistenza delle risorse. Penso che il dibattito che si è aperto in queste settimane sia piuttosto pericoloso, cioè non dobbiamo discutere dei ritardi, ma dobbiamo accelerare per evitare i ritardi. Mi sembra sia, insomma, la precostituzione di un alibi per nascondere il fatto che da un lato ci sono alcune scelte che non si vogliono fare, dall'altro ci si rende conto che questo modello per obiettivi comporta condivisione e coesione. E comporta anche un ruolo forte dello Stato nell’orientamento e nella guida alle scelte, oltre che al sostegno agli investimenti del Pnrr con la spesa corrente. Io penso che abbiamo tutte le caratteristiche per poter spendere in tempi utili le risorse. Credo che possiamo tranquillamente chiedere all'Europa, se ci sono progetti che oggi anche per l'aumento dei costi sono usciti fuori dalla possibilità di chiudere entro il 26, di rimodularli. Quello che proprio non possiamo fare è pensare che da un lato si rivede tutto il Pnrr negando alcuni grandi obiettivi, come appunto quello dell'inclusione, o quello della transizione ecologica, piuttosto che della digitalizzazione. Ecco, mi sembra che queste settimane abbiano messo in evidenza più che la volontà di risolvere i problemi, la costruzione delle obiezioni rispetto alla possibilità di farcela. Non credo debba essere questo il metodo. Io penso, al contrario, si debba chiamare tutti a responsabilità. Questo, come dicevo poco fa, non è il progetto del singolo governo, è il progetto dell'Italia.