Sono anni che, con fortune alterne e con indicazioni diverse, si parla di riformare il sistema fiscale italiano. Forse se ne è cominciato a parlare già dalla fine degli anni Settanta,  decennio in cui fu approvata l’ultima legge quadro. In realtà da allora, oltre a parlare, il Parlamento ha approvato parziali correttivi e modifiche, stratificando interventi spesso incoerenti tra loro.  Il più significativo lo varò Vicenzo Visco nel 1997, e servì a razionalizzare le imposte extra Irpef più che a ridurre la pressione fiscale. Poi arrivarono Berlusconi e Tremonti, vanificando ciò che di positivo era stato compiuto.

Dai primi anni del nuovo millennio, almeno, è possibile individuare un filo conduttore tra i diversi annunci di riforma: abbassare le tasse, far pagare meno gli italiani. E l’Italia, ricordiamo, è il Paese con il tasso di evasione fiscale più alto tra quelli occidentali. Ma per il discorso pubblico le tasse sono “brutte” e bisogna ridurle, non si cerca davvero, e non si colpisce troppo quando lo si trova, chi non le paga.

Eppure, in anni ormai lontani, durante i governi Prodi 1 e Ciampi, e poi ancora con il Prodi 2, quando si cominciò a limitare il contante e a tracciare, almeno in parte, i pagamenti, l’evasione si ridusse un po’ e aumentò il gettito fiscale. Non solo, quelli furono anche gli anni della riduzione del debito pubblico. Certo, anche accompagnati dall’inizio dei tagli di spesa che poi hanno dispiegato la propria capacità di sforbiciare negli ultimi 15 anni, quando il contrasto vero all’evasione si è allentato. E furono gli anni della riduzione del Fondo sanitario e dei tagli all’istruzione, all’Università, al trasporto locale e ai servizi sociali. Quanto abbiamo pagato e continuiamo a pagare quelle “scelte” in epoca di pandemia!

L'idea di una riforma complessiva del fisco fu annunciata nel 2019, e non a caso. Nasce anche dalle sollecitazioni, più volte reiterate, di Cgil Cisl e Uil che negli anni, unitariamente, hanno richiamato alla necessità che le tasse vengano più equamente distribuite. È bene ricordare, infatti, che quasi il 90% del gettito derivante dall’Irpef lo pagano lavoratori e lavoratrici dipendenti, pensionati e pensionate. E allora, quando durante il confronto sulla legge di bilancio del 2019 posero con forza il tema della riduzione fiscale sul lavoro e ottennero la diminuzione del prelievo fiscale di 100 euro per le i dipendenti a redditi medio bassi, le confederazioni posero con forza la necessità che quell’intervento dovesse essere solo il primo passo di una riforma complessiva.

Poi è arrivato il Covid. E con il coronavirus anche Next Generation Eu e il Piano nazionale di ripresa e resilienza. Il Pnrr indica quella fiscale tra le "Riforme di accompagnamento", non fa quindi parte del Piano vero e proprio ma serve, anzi è indispensabile. E questo, ovviamente, è bene. “Semplificazione, razionalizzazione del prelievo, riduzione graduale del carico fiscale, preservando la progressività e l’equilibrio dei conti pubblici, proseguire con determinazione il contrasto all’evasione”: sono gli obiettivi della riforma dichiarati dal governo, riforma che dovrà essere approvata, sotto forma di legge delega, dal Consiglio dei ministri entro luglio.

Nel frattempo le Commissioni finanze di Camera e Senato hanno lanciato una "indagine conoscitiva sulla riforma dell’Irpef e altri aspetti del sistema tributario", hanno audito oltre 60 soggetti, istituzioni, esperti, professori, parti sociali, con l'intento di restituire protagonismo al Parlamento. L’indagine conoscitiva si è conclusa e ha prodotto una Relazione approvata da tutte le forze di maggioranza, che è stata inoltrata al governo. Nel leggere le parole scritte dal governo indicando gli obiettivi e quelle che compongono il titolo dell’indagine conoscitiva del Parlamento si coglie il punto della questione: “riduzione graduale del carico fiscale” e “Riforma dell’Irpef” stanno a significare che l’idea sottesa che le tasse sono “brutte” continua a essere una  ferma convinzione, così come che a doversi farsi carico della gran parte del gettito fiscale del Paese debbano essere lavoratori e pensionati.

Non si menziona l’ipotesi dell’allargamento della base imponibile, né quella della tassazione su tutti i redditi, da lavoro, da rendita e da patrimonio, né si fa cenno a una più equa redistribuzione della pressione fiscale. Le tasse sono “brutte” e bisogna ridurle. Ma nella mente e nella penna di chi scrisse la Costituzione l’idea era diversa: “Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”, recita l’articolo 53 della Carta. Insomma l’idea era quella che il patto di cittadinanza fondato sul welfare (sanità, istruzione, servizi sociali gratuiti e universali) fosse garantito appunto da un sistema fiscale equo e progressivo. Dunque, l’idea era che le tasse non fossero affatto “brutte” ma dovessero essere lo strumento per redistribuire equità e ricchezza prodotta dal Paese con il lavoro degli uomini e delle donne, e finanziare quei servizi che dovevano, e ancora devono, garantire i diritti di cittadinanza a tutte e tutti.

Entro il 31 luglio il governo dovrebbe presentare al Parlamento una legge delega di riforma fiscale, e indicare una Commissione di esperti per redigere, successivamente, le linee guida dei conseguenti decreti. A quale idea di tasse si ispireranno? A quella che le ritiene “brutte” o a quella della nostra Costituzione? La scommessa è tutta qui.