Quando si parla di energia, reti e telecomunicazioni negli obiettivi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, è necessario fare una premessa di scenario. L'abbiamo chiesta al segretario confederale della Cgil, Emilio Miceli.
La transizione ambientale e digitale e la mole di investimenti del Recovery Plan ci dicono che siamo fuori dal Novecento. “Come e cosa produrre”, “come e dove lavorare” sono le domande di fondo. E anche la fonte di incertezze per milioni di persone. È questo il motivo per cui abbiamo invocato una nuova qualità dell’intervento pubblico: perché sarà necessario riorganizzare interi pezzi dell’industria e del sistema economico e ciò può essere fatto a condizione che il sistema pubblico non sia solo soggetto di “regolazione” ma anche di “programmazione”, di scelta strategica.  Chiediamo che il processo di transizione sia anche sostenibile socialmente. I grandi processi di transizione hanno sempre portato benessere e vogliamo che anche questo sia all’insegna di una nuova stagione che coniughi i bisogni elementari ancora negati a milioni di persone, ed i diritti. Dobbiamo avviarci verso una società postindustriale, non preindustriale. Dovremo dare un assetto stabile e continuo al sistema energetico, misurarci fino in fondo con i processi di remotizzazione e di digitalizzazione. E qui occorrerà riflettere, penso, attorno ad una riforma del sistema contrattuale che non escluda a priori una funzione della contrattazione integrativa anche su base individuale. Infine evitare che anche in questa nuova “rivoluzione industriale” il Sud svolga ancora una volta una funzione subalterna di riserva di manodopera, stavolta qualificata.

Quali sono i temi strategici in ballo?
Osservo che il processo di liberalizzazioni che è pensato con il Pnrr sicuramente renderà più integrato il mercato Ue ma rischia di lasciare irrisolti temi strategici per il nostro paese: la liberalizzazione dei porti e dei servizi pubblici locali, il riferimento alle reti di tlc mentre in realtà ne abbiano una sola di valore universale; il sistema degli appalti e dei subappalti. Occorrerà seguire con grande attenzione un processo che nasce oggi ma, diversamente da altre fasi, è destinato a diventare il modello economico del paese. Vorremmo che da parte dell’Italia ci fosse la stessa attenzione che francesi e tedeschi hanno per la loro industria, le loro reti, i loro servizi.

PODCAST / EVITARE I GRANDI ERRORI DEL PASSATO

Sulle telecomunicazioni si gioca dunque una partita decisiva?
Se guardo al processo di digitalizzazione penso che sia necessario partire dalla sua “industria di base”, che sono le tlc. Insistiamo sul punto: l’Italia deve gestirne il ciclo completo perché le telecomunicazioni sono uno dei beni essenziali di un Paese che vuole essere forte. Non basta investire nel sistema digitale. Basta fare un “giro” in rete per trovare servizi di “cloud” a 3 euro... Il ciclo del sistema digitale è fatto così: tutti gli assets tendono a diventare “commodity”. Senza una grande azienda che gestisce su larga scala e promuove ricerca e investimenti difficilmente si potranno raggiungere i traguardi indicati e guidare i processi di innovazione. È ovvio che la rete deve essere per tutti a costi unitari, ma proprio la sua strategicità, dovuta alle continue innovazioni, consigliano la presenza di un grande player che abbia anche una missione estensiva, per tutto il paese, delle capacità della rete.

Possediamo una rete in rame che arriva dove non arriva neppure il postino. Per questo ci vuole una grande azienda che si sobbarchi il compito di sostituire o integrare la vecchia rete, di garantire lo “switch”, anche sul piano dei costi, verso la banda ultralarga. Il rischio che corriamo è chiaro: o c’è questa visione oppure la banda ultralarga servirà le parti più ricche del paese. Come dire che gli investimenti si concentrano dove c’è già ricchezza. Sarebbe l’ultimo residuo di cultura novecentesca di cui fatichiamo a liberarci. E poi, sarebbe doloroso assistere al “downgrade” delle tlc come fu con l’informatica. Forse quella storia dovrebbe dirci qualcosa perché, al momento, sembra esserci un uguale declino delle tlc se non interveniamo in tempo. Anche temporalmente: siamo usciti dall’informatica mentre era in atto la rivoluzione del Pc e rischiamo di ridimensionarci nelle tlc mentre la rete cambia volto in modo radicale con la rivoluzione del 5G. Non vorrei che Olivetti, Italtel e Telecom fossero accomunate da un destino identico. Grandi player mondiali divenuti nobili decaduti prima e marginalizzati poi..

Ma quando parli di un grande player a chi ti riferisci? C’è già un soggetto o si deve creare?
No, non dobbiamo inventare niente. Il soggetto già c’è e si chiama Tim. Ed è titolato perché possiede, come ho già detto, l’unica rete nazionale. Si tratta però di un’azienda che è stata indebolita e impoverita, alla fine degli anni ‘90 al solo scopo di misurare la capacità di acquisizione a “leva” nell’ambito della riforma degli strumenti di finanza di mercato.

PODCAST / IL PLAYER NAZIONALE GIA' ESISTE

Siamo quindi di fronte ad una scelta di politica industriale?
È una scelta politica. Non mi sfuggono il dibattito giuridico sulle reti e le obiezioni che vengono poste in Europa sulla rete unica. Però questo è uno dei punti su cui il Paese deve farsi sentire, anche se ovviamente le pressioni sulla liberalizzazione, nel momento in cui l’Europa investe così tanti soldi, saranno fortissime. Ma ci sono punti su cui si gioca l’interesse del Paese. Mi domando a cosa serva la “golden power” se non esercitiamo questa funzione nelle tlc.Èindispensabile avere un grande player nazionale che ti garantisce la capacità del sistema di arrivare a tutti. Un sistema di telecomunicazioni che funziona ti garantisce la diffusione di informazioni, competitività e conoscenze. Va trattato quindi a quel livello, superando l’approccio al mero rapporto tra domanda e offerta. Siamo di fronte a qualcosa di più: la rete ha valore di servizio universale.

Ci vuole dunque un ruolo forte dello Stato?
Non è detto che il soggetto di cui stiamo parlando sia statale. Sicuramente però ci vuole un forte orientatore pubblico. Io non sono uno statalista, ma nelle telecomunicazioni, soprattutto in questo delicato momento di passaggio, deve essere il sistema pubblico a concorrere nelle scelte strategiche.

Entriamo ora nel merito delle missioni del Pnrr relative alle reti e alle scelte della transizione ecologica. Qual è il tuo giudizio? Come definiresti il concetto di sostenibilità?
La sostenibilità sarà uno dei caratteri della competitività. Se sarai sostenibile, sarai anche competitivo. Se vai sul mercato e vai a chiedere soldi per i tuoi progetti farà sempre più la differenza se sei o meno sostenibile. La remunerazione del capitale che si investe sarà sempre più diversa e tenderà ad accentuarsi tra chi è sostenibile e chi produce co2. Quindi il sistema o è sostenibile o non è competitivo. È, quindi, la condizione per difendere la grande parte del nostro sistema industriale. Cogliere questo elemento vuol dire liberare il dibattito dalla diatriba “sostenibilità sì, sostenibilità no”. Oggi sono i mercati a chiederti di essere sostenibile. Poi c’è una parte del dibattito che riguarda i tempi della transizione, che ovviamente non sono affatto un elemento secondario. I processi di accelerazione e gli strappi saranno forti. La finanza non asseconda i tempi della politica come abbiamo visto dalle tante crisi precedenti (quella dei subprime per esempio). Noi quindi dovremo essere in grado di sostenere il nostro sistema industriale, le sue grandi filiere (mobilità, chimica, plastiche, siderurgia, ecc.), nel percorso di cambiamento e riconversione. In questo senso il sindacato potrà giocare un ruolo decisivo nel dire come riconvertire. Il nostro obiettivo non può che essere legare la sostenibilità sociale alla sostenibilità ambientale.

PODCAST / SOLO CHI SARA' SOSTENIBILE SARA' COMPETITIVO

Come giocherà l’elemento tempo?
In questo caso abbiamo due possibilità. O rispetti i tempi o li acceleri. Noi abbiamo deciso di stringere i tempi e di accelerare. Da lì nasce il dibattito sulle tecnologie intermedie. Io posso uscire nel 2050 dal carbone, ma se decido di farlo entro il 2025 (come si dice nel Piano nazionale italiano), ho bisogno della tecnologia ponte. Il Pnrr fa una scelta importante. Intanto fissa un punto: l’energia ha bisogno di continuità e di certezze. Devi essere certo di erogare sempre, in qualsiasi momento, l’energia che serve. Il Pnrr con grande chiarezza sceglie come vettore che può garantire continuità e certezze nell’erogazione dell’energia, l’idrogeno. Il processo di transizione, secondo il Pnrr, si concluderà quando avremo a disposizione l’idrogeno. È un elemento di chiarezza rispetto al dibattito altalenante che c’è stato finora.

Ma allora questo significa rinunciare all’obiettivo delle energie rinnovabili?
Noi acquisiamo un punto: l’energia deve essere certa e continua. E l’unico vettore che ci garantisce è l’idrogeno. Ma l’altro punto decisivo che è stato fissato riguarda il fatto che entro il 2025 non avremo più carbone. E se vogliamo uscire dal carbone al 2025, è evidente che le energie rinnovabili ed il gas sono fondamentali. Non dobbiamo aspettare il 2050 per farlo.  Ovviamente, al momento possiamo dire con una certa sicurezza che al 2050 il mix globale dovrà essere composto essenzialmente da rinnovabili ed idrogeno. Energie rinnovabili e idrogeno non sono alternativi. Dovranno far parte entrambe del sistema energetico. L’idrogeno magari avrà caratteristiche più marcate sul piano dell’industria e della grande mobilità, mentre le rinnovabili copriranno una parte della mobilità e del sistema elettrico. Il tema della transizione, che è il dito e non la luna, deve poggiare sulla certezza di continuità dell’energia, sulle rinnovabili ed anche, come succede in tutti i paesi Ue, sul contenimento delle emissioni. Di qui la necessità di tecnologie intermedie che consentano di diminuire le emissioni: la macchina ibrida piuttosto che il gas o la cattura della co2 fino ai processi di riciclo dei rifiuti delle plastiche. La gestione dei processi di transizione, in questo senso, è anche immediatamente connessa alla sostenibilità sociale.

PODCAST / IDROGENO E RINNOVABILI

Le scelte del governo sull’energia sono dunque condivisibili?
Nel Pnrr, da questo punto di vista, riscontriamo un percorso chiaro. L’Italia, tra l’altro, si è distinta in Europa anche rispetto a Paesi come la Francia che hanno chiesto e ottenuto l’abilitazione dell’energia nucleare come energia “pulita”. Noi al contrario stiamo affrontando questo grande tema non avendo mai scelto il nucleare né il carbone. Tanto di cappello al nostro Paese che è stato capace di avere una quota del 40 per cento del fabbisogno elettrico direttamente dalle rinnovabili. E l’altra parte non è né carbone, né nucleare: è gas. Ora il vero problema è, oltre a recuperare su efficienza e risparmio energetico, affrontare il processo di riconversione industriale conciliandolo con le scelte energetiche, che non sono mai un soggetto neutro. In questo quadro sarà necessario guardare con attenzione alle grandi concentrazioni “fossili” del Sud: a Brindisi piuttosto che Taranto o Siracusa, alla situazione più generale del superamento del sistema di raffinazione ed all’insieme dell’industria energivora. E questo si intreccerà con il destino di alcuni territori. In che direzione andranno la Basilicata, che produce greggio, e come sostenerne la riconversione? O la Sardegna, sia a Sud che a Nord. Oppure le aree del centro nord sedi di importanti distretti energivori ad alto tasso di esportazione. Per non parlare del superamento del motore a scoppio...

Quale futuro possiamo immaginare?
Dovremo saper parlare il linguaggio “verde” della sostenibilità e quello, che non saprei come colorare, dell’equilibrio sociale, del declino territoriale, dell’impoverimento. Tema complesso ma ineludibile. In chiusura vorrei ricordare che l’energia costa ed è uno dei fattori della competitività. È anche in base alla bolletta energetica che si allocano gli investimenti e nella fase che abbiamo davanti dovremo produrre energia pulita ed a basso costo. Non sarà facile. Senza dimenticare mai che dobbiamo favorire, noi europei, analogo processo a livello globale. Ancora qualche mese fa l’ex presidente degli Usa rifiutava gli accordi sul clima. E poi la Cina, l’India… La strada da fare è ancora lunga e a noi spetta essere puliti e competitivi. Non può essere un ossimoro: è la grande sfida.