La proposta emergenziale di uno “Stato che si muova per far ripartire le imprese” andrebbe rovesciata in una che risponda alla domanda: “come cambiare il modo di creare e suddividere la ricchezza”? La lunga stagnazione di occupazione e produttività, l’incapacità di affrontare gli squilibri sociali e territoriali, le mancate risposte alla crisi ambientale sono altrettante priorità per qualsiasi proposta nell’emergenza. E invece si continua a fissare obiettivi e progetti dall’alto (Colao) in continuità con una visione tecnocratica del passato.

La proposta di Pennacchi, Archibugi, Reviglio è seria e informata. Si ispira a modelli alti del Novecento. Occorre ripartire con un diverso piede. Beni comuni, azione locale, diritti di proprietà sono i temi del nuovo secolo. I beni comuni e l’azione locale solo a fine Novecento si sono sviluppati nel governo dei beni comuni proposto da Elinor Ostrom. Secondo questa visione, si partecipa all’azione collettiva perché i gruppi locali hanno interessi comuni nel regolare insieme l’uso di beni collettivi che altrimenti andrebbero incontro a un consumo individuale eccessivo e distruttivo. La natura di bene comune può essere estesa ad altri tipi, e la conoscenza va pensata esattamente in questi termini, qualcosa a cui tutti partecipano e dei cui benefici nessuno, neppure l’impresa, può singolarmente appropriarsi. Si tratta semmai di tutelare solo temporaneamente chi ha investito per produrre quell’innovazione. Significa incorporare l’esperienza di ciascuno nella relazione sociale, mutando le convenienze e la logica del patto di società. La sede di questo incontro non è però più "lo Stato": è "glocale", cioè una nuova geografia degli interessi collettivi guidata dall’ethos della relazione e dell’intesa. Concretamente: patti di scala regionale aperti, come nel patto per il lavoro dell’ Emilia-Romagna nel 2015-2019.

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I diritti di proprietà sono l’altro tabù da sfatare. Dani Rodrik è l’economista di Harvard che da più di dieci anni sta lavorando sul tema della globalizzazione intelligente. Scrive ora: “Dovrebbe un posto di lavoro appartenere all’impresa, al lavoratore, o a una combinazione tra i due? Forse l’impresa stessa dovrebbe essere posseduta da una terza parte - un’entità del governo locale ad esempio - e semplicemente assicurare la compatibilità degli incentivi per i dirigenti e i dipendenti…Forse gli imprenditori dovrebbero avere i diritti di proprietà per un periodo definito solo sui nuovi asset che creano, mentre quelli già esistenti sono distribuiti tra altri che li rivendicano... Forse il governo, per conto del pubblico, dovrebbe tenersi in parte la proprietà delle nuove tecnologie visto che gran parte dell’innovazione si basa su infrastrutture pubbliche (ricerca e sviluppo e sussidi, educazione superiore, regime legale, etc.). Le scelte da fare devono considerare le preoccupazioni distributive e basarsi sui nostri obiettivi finali, e sul potenziale inserimento nel contesto locale”.

Risaliamo così ai più soggetti, non solo l’impresa ma la rete dei fornitori, i lavoratori, i creativi, le istituzioni locali che rendono possibile la creazione di valore. Diamo i finanziamenti progettuali a queste entità. Questi soggetti cooperativi possono accordarsi su una compartecipazione agli utili e ai costi del progetto. Includendo le istituzioni locali si terrà conto di fini superiori di protezione dell’ambiente, rispetto di standard ecologici per rendere un territorio migliore. Associando i fornitori si realizzeranno contratti di filiera che permettano la distribuzione equa dei valori e dei rischi insiti nei processi produttivi. Riconoscendo il lavoro e le sue organizzazioni, si riconoscerà un diritto di co-determinazione e di co-creazione di valore dell’impresa. Dando ai creativi il ruolo che loro spetta in quanto produttori di conoscenza applicata al prodotto, si sancirà per la miriade di professionisti indipendenti e freelance (undici milioni in Europa) un positivo diritto di essere parte dell’impresa collettiva.