Ora che si parla di più di violenza di genere - anche e soprattutto (purtroppo) per la crescita esponenziale dei casi di femminicidio - che tutti lavoriamo a campagne per invitare le donne a denunciare i casi di violenza domestica e stalking, qualche grande sostenitore della nostra amata cultura patriarcale si è fortemente ingegnato per capire come arginare il fenomeno. No, non quello della violenza maschile, ma quello delle denunce delle donne. E come poteva farlo, come colpire e spaventare quelle ribelli che osano opporsi e sottrarsi a questo becero esercizio di potere?

Semplice, far leva sul punto sulle quali tutte siamo più fragili: i figli. Con una parte delle donne non ci si riesce, quelle che non hanno figli con i galantuomini in questione si salvano. Ma per quelle che ne hanno, lo spettro di vedersi levare i minori si aggira nelle aule dei tribunali civili e minorili. E tanto spettro non è, si tratta purtroppo di un fenomeno che si diffonde inesorabile su tutto il territorio nazionale. Lo strumento più utile a tal fine è il ricorso alla Pas (sindrome da alienazione parentale), con cui si accusano le madri di manipolare i figli contro i padri e di ostacolarne il rapporto. Per la cronaca, la Pas è una teoria formulata da uno psicologo americano negli anni Ottanta che difendeva uomini violenti e pedofili e disconosciuta da tutto il mondo scientifico. Nonostante anche la Cassazione abbia sentenziato in tal senso, la Pas continua a essere insegnata ed è applicata quotidianamente nei nostri tribunali, oltre a essere la spina dorsale di disegni di legge ancora depositati in Parlamento, a partire dal decreto Pillon.

Ma vediamo il meccanismo come funziona. Una donna denuncia – con tutte le difficoltà - le violenze subite dal compagno/marito e parte in automatico il meccanismo penale, poiché la violenza contro le donne è procedibile d’ufficio (se il gip riscontra il reato diventa “lo Stato contro l’uomo violento” e la donna se vuole si costituisce parte civile, oppure lascia il procedimento al pubblico ministero). Se non ha figli, la parte giudiziaria si esaurisce in questo percorso.

Se ha figli minori, invece, si pone il problema dell’affidamento. Che sia presso il tribunale civile o minorile, le spiegheranno che la violenza è un tema penale e si vedrà affibbiata l’etichetta di “rapporto conflittuale” (peccato che il conflitto si agisce in due, mentre nella violenza uno la esercita, l’altra la subisce) e, quindi, sarà nominato un consulente d’ufficio a cui vengono posti dei quesiti dal giudice (compreso se un genitore è ostativo) e attivati i servizi sociali. Da qui comincia un percorso durissimo in cui sempre più spesso è la donna a essere sotto processo. E se i figli non vogliono vedere il padre violento, che magari davanti a loro ha massacrato di botte la madre, la colpa sempre più spesso è data alla donna alla quale si chiede di mettere da parte tutta la paura, le preoccupazioni per i figli, spesso anche i provvedimenti di allontanamento del tribunale penale, in nome del diritto dei minori ad avere entrambi i genitori. Nel nostro Paese, purtroppo, questo principio viene prima della tutela fisica e psicologica dei minori, ovvero è diventato il diritto del padre a esercitare il suo ruolo, a prescindere dalla sua pericolosità. Questo anche in presenza di una condanna penale. Ci sono stati casi, purtroppo, in cui, sulla base di una sentenza di Pas, i figli sono stati affidati a uomini violenti e fatti vedere alla madre ogni 15 giorni, sotto il rigido controllo dei servizi sociali. Oppure portati in casa famiglia.

Molti avvocati, non quelli dei centri antiviolenza ovviamente, sconsigliano quindi di denunciare la violenza (o di ritirare la denuncia) e, purtroppo, spesso le donne si fidano. Così il capolavoro è completo e le donne finiscono per essere vittime prima dell’uomo, poi del sistema giudiziario.

Ma non è questa la strada. Così come le nostre battaglie hanno portato importanti avanzamenti in tema di procedura penale, ora quelle lotte vanno indirizzate sul diritto di famiglia. A partire dall’applicazione della convenzione di Istanbul e alla stesura dei suoi decreti attuativi, che renderebbe impresentabile ogni decreto Pillon e simili. Questo è l’impegno della nostra organizzazione, perché ogni donna viva libera dalla paura.

Giorgia Fattinnanzi, dipartimento politiche di genere Cgil nazionale