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Nonostante Poste Italiane sia una delle aziende più strutturate del Paese, la strada verso la parità è ancora molto lunga, lastricata di buone intenzioni che però spesso non si traducono in azioni. Il quadro è emerso con forza nel corso dell’incontro dal titolo “Il ruolo delle donne in Poste Italiane”, che si è tenuto ieri (11 giugno) presso la Cgil nazionale. Nel corso dell’iniziativa è stato presentato un pamphlet che raccoglie i dati più significativi rispetto al sussistere di un reale e radicato problema di gender gap.
I DATI DELLA DISPARITÀ
In Poste Italiane il 55% del personale è donna, dunque un rapporto equilibrato tra generi. Lo squilibrio è, invece, forte rispetto alle retribuzioni: stipendi più bassi, con un divario particolarmente evidente rispetto al salario accessorio, quello che sfugge alla contrattazione sindacale e resta relegato a scelte unilaterali aziendali. Su questi numeri incide ancora il ruolo di cura che la donna svolge e che le impedisce la piena messa a disposizione del proprio tempo, con ripercussioni sulla carriera. Tra i dirigenti solo il 22% sono donne, contro il 78% degli uomini. È questo che emerge dai dati di bilancio di gestione (2024) e da quelli indicati dal ministero del Lavoro e delle politiche sociali nel Rapporto periodico sulla situazione del personale maschile e femminile (Biennio 2022/2023).
SEI INCINTA? TI ASSUMO SOLO DOPO TRE MESI DAL PARTO
La parte più interessante dell’iniziativa è stata senza dubbio la presentazione di alcuni case histories, storie reali di lavoratrici che in Poste Italiane si sono viste negare le forme più essenziali di tutela dei propri diritti e delle proprie situazioni personali. Come Pamela (nome di fantasia) che dopo aver ottenuto un part-time per poter seguire meglio suo figlio con diagnosi di autismo, se lo è visto unilateralmente annullare qualche anno dopo, come se l’autismo fosse una patologia reversibile con l’età. O Elda che, rimasta vedova giovanissima, chiede un cambio di mansioni per accudire i figli e le viene negato. O ancora il caso denunciato da Slc Marche, relativo ad alcune donne incinte rientrate in posizione utile in graduatoria ai fini della stabilizzazione, a cui è stato imposto il rinvio di sottoscrizione del contratto a tempo indeterminato a tre mesi dopo il parto.
IL PART-TIME NEGATO
Sono solo alcune delle storie vere raccolte in questa piccola ma potente pubblicazione e che documentano una serie di vertenze aperte sul tavolo. A seguirle, insieme alla Slc Cgil, l’avvocata giuslavorista Yara Serafini che nei suoi preziosi interventi ha illustrato i passaggi più significativi ed emblematici dei casi seguiti. Si tratta di lavoratici a cui viene negata anche una risposta, tanto da essere costrette rivolgersi alla Consigliera provinciale per le Pari opportunità. Il rovescio della medaglia, sono quei lavoratori “involontari” part-time, a cui viene negata la conversione in full-time. Gli uomini usufruiscono del part-time per il 38% (di cui solo il 22% volontari) mentre le donne sono il 62% (di cui il 78% volontari). Ma le richieste di passaggio al tempo parziale vengono di frequente respinte al mittente, anche se motivate da ragioni di cura e assistenza a figli o famigliari.
UN PROBLEMA DI CULTURA DI GENERE
Al quadro articolato presentato da Martina Tomassini, coordinatrice nazionale Slc, hanno fatto seguito gli interventi di Lara Ghiglione, segreteria nazionale Cgil; Roberta Mori, Pd; Yara Serafini, avvocata giuslavorista; Anarkikka, vignettista, e Simonetta Marangoni, di Poste italiane, coordinate dalla giornalista del Sole 24ore Simona Rossitto. “Rileviamo che la dirigenza non tiene conto delle reali esigenze quando si tratta di interdizione posticipata, part-time volontario o assunzione di donne in gravidanza - ha premesso Tomassini illustrando i dati -. Siamo consapevoli che nella maggior parte dei casi è un problema di cultura di genere”.
NORME ANTIQUATE, SERVE PARLARE DI GENITORIALITÀ
Se Parigi non è la Francia, Poste è invece lo specchio di quanto avviene nel resto del paese. “A chiedere il congedo parentale sono sempre più spesso le donne - ricorda Ghiglione – e nelle iniziative di governo a sostegno della famiglia c’è sempre una parola che manca: genitorialità”. A farle eco è la giuslavorista Serafini: “Le norme esistono, molte sono antiquate, ma i fattori discriminatori, malgrado il diritto del lavoro, restano”. L’avvocata ha ben illustrato come lo stato di gravidanza, l’età, lo stato di salute della donna siano stati utilizzati ripetutamente da Poste come fattori discriminatori per giudicare le competenze delle lavoratrici.
IL PINKWASHING NON BASTA
Un dibattito molto vivace, che ha visto diversi interventi spontanei e testimonianze da parte di lavoratrici e lavoratori di Poste, dal quale è emerso un elemento tra tutti: il profondo scollamento tra la teoria e la pratica, tra le policy e la realtà dei fatti. Simonetta Marangoni, di Poste Italiane, ha illustrato l’impegno dell’azienda nei corsi di formazione, nella certificazione di parità di genere, conosciuta anche come "bollino rosa", ovvero il processo volontario che le aziende possono intraprendere per attestare l'implementazione di politiche e pratiche volte a garantire l'equità. Ma sembrano somigliare più a iniziative di pinkwashing, se rapportati ai molteplici casi di discriminazioni e molestie subiti dalle lavoratrici su tutto il territorio nazionale.
LE DONNE NON VOGLIONO PIÙ ESSERE UNA SPECIE PROTETTA
“La questione della parità di genere – ha concluso Riccardo Saccone, segretario generale Slc Cgil – in Poste è antica e più complessa di quanto si pensi. C’è una differenza abissale fra le politiche generali di gruppo e quanto avviene sui territori”. Sagace la chiusura della vignettista Anarkikka che, giocando con le parole, sintetizza una grande verità: “Non vorremmo più politiche che ci includono ma politiche che ci prevedono”. Noi donne, insomma, non vogliamo più essere considerate dei panda da salvare. Né delle “Wonderwoman” che salveranno il mondo.