Quella che ha subito Francesca sul posto di lavoro è una discriminazione velata, non eclatante, che però l’ha costretta a lasciare l’azienda e l’attività che amava. “Non c’era più la fiducia, non mi sentivo accettata, anche se mi era stato detto che mi avrebbero appoggiato e sostenuto e che per loro, il direttore, i capi, i colleghi, sarei stata sempre la stessa persona”. Il percorso di Francesca, che da uomo è diventata donna, è iniziato tre anni fa, in età adulta. Spostata, con due figli, dopo essersi separata dalla moglie ha capito che per essere felice, per essere se stessa doveva ritrovare e affermare la sua identità femminile.

Siamo nelle Marche, nella provincia di Ascoli Piceno, un paesino che si affaccia sul mare, dove si conoscono tutti. Francesca è entrata in azienda nel 2016 quando era ancora un uomo, per l’aspetto esteriore e per l’abbigliamento. Ruolo, consulente alle vendite, un mestiere che le riesce bene, per cui porta a casa i risultati. “Dopo circa sei mesi ho iniziato a maturare la consapevolezza, quindi ho avviato il percorso psicologico e psichiatrico che la legge impone di seguire – racconta -. Imboccata la strada della transizione sono stata sincera con tutti: l’ho detto ai miei figli, alla mia ex moglie e in azienda. Ero pronta a tutto, a farmi carico di qualsiasi conseguenza. Ma capi e colleghi mi hanno accolto dicendomi: ‘Quando sarai pronta, non ci sarà alcun problema’”.

E così è stato, almeno all’inizio. La cura ormonale ha dato i suoi frutti e Francesca, una donna in abiti femminili e trucco, ha preso il posto dell’uomo in giacca e pantaloni. “A quel punto il direttore, che non andava più d’accordo con il titolare, ha creato una sua società, una start up nella quale è confluito il gruppo dei venditori – prosegue Francesca -. Quando si è trattato di farmi il contratto, però, sono l’unica a cui non è stato garantito il fisso mensile, che invece avevo nella precedente azienda. Ho protestato e chiesto lo stesso trattamento di prima, assicurato anche agli altri. Beh, è stato allora che l’atteggiamento del mio capo è cambiato: ha iniziato a chiamarmi con il mio nome biologico maschile, e durante gli incontri formali che abbiamo avuto per parlare del contratto, sottolineava con un sorrisino la lettura delle parti in cui io venivo indicata con il nome di battesimo, non ancora cambiato all’anagrafe. Mi sono sentita offesa per il trattamento ricevuto e discriminata per l’inquadramento contrattuale riservato solo a me”.

Lavorare in quelle condizioni non era più possibile, Francesca era ferita. “Come potevo dare il massimo con i clienti? Non avevo più l’entusiasmo necessario – ricorda -. Il fatto è che le aziende non sono preparate e le persone non si rendono conto del male che fanno. Non sto giustificando le discriminazioni, anzi. Il mio direttore? L’ho perdonato, ma non dimentico quello che mi ha fatto”. Da un anno e mezzo Francesca cerca lavoro, ogni giorno dedica il pomeriggio a inserire candidature e mandare curriculum. “Ma è difficilissimo per tutti, figuriamoci per una donna transgender - dice -. Dopo il licenziamento, è arrivata la pandemia, mi sono ritrovata senza un euro. Ho preso una decisione maturata con coraggio: mi sono prostituita, da luglio a ottobre. Poi non ce l’ho fatta più. Psicologicamente è stata un’esperienza devastante. Quando ero sulla strada piangevo tutto il tempo. Ho ricevuto tante di quelle umiliazioni dagli uomini che passavano in auto e ho corso tanti, troppi rischi. Ma i soldi mi servivano, mi hanno salvata”.

Le donne transgender sono l’ultima ruota del carro, le ultime tra gli ultimi. “Siamo viste come i gay negli anni Ottanta: non persone, non esseri umani. Quando qualcuno ci guarda pensa subito a droga e prostituzione. Perché si è creato questo stereotipo? Perché c’è grande ignoranza. Persino i giornali quando riportano fatti di cronaca che riguardano una donna trans parlano di lei al maschile. C’è una cultura dominante che è omotransfobica”. La stessa che il tanto discusso ddl Zan vorrebbe sconfiggere.