Era il 1912 quando Rose Schneiderman, in quel di Cleveland, si ribellò alle condizioni di vita e lavoro alle quali era costretta per affermare che, oltre il pane, si aveva bisogno e diritto anche di rose. Una rivendicazione che nel corso della storia ha rappresentato il simbolo di un lungo cammino, spesso tortuoso, troppo spesso volontariamente accidentato da chi voleva ostacolarlo, e non ancora concluso.

Lo testimonia, dopo oltre un secolo, un libro che non a caso sceglie per esergo le parole di Rose Schneiderman, non a caso arrivato negli scaffali delle librerie in queste ore, dal titolo Bread & Roses. Storie straordinarie di ordinaria discriminazione. pubblicato da Porto Seguro Editore. Lo curano due donne, l’avvocata Marina Capponi e l’attrice Daniela Morozzi, il cui percorso professionale, apparentemente distante nelle competenze, viene unito dalla battaglia contro le discriminazioni di genere attraverso un progetto radiofonico che lo scorso anno ha trovato spazio nelle frequenze dell’emittente Controradio a Firenze. Le esperienze di entrambe si incontrano per dare voce, questa volta attraverso lo strumento della scrittura, alle storie di Mara, Sophie, Silvana, Laura, Alessia, Giulia, Ginevra, Emma, Clara e Luciana, che nel libro diventano l’ispirazione sollecitata da fatti giudiziari reali.

Parlando del mondo del lavoro declinato al femminile si finisce inevitabilmente per commentare episodi di molestie e violenza, così come quelli che vengono definiti “maltrattamenti in famiglia” in Italia raccolgono numeri inaccettabili per qualsiasi società civile. Numeri sui quali riflettere anche in virtù del fatto che in moltissime circostanze le donne che subiscono vessazioni non denunciano l’accaduto per timore di non essere credute, o per timore e basta.  Ma la forza di queste pagine arriva anche da quelle narrazioni a lieto fine che per fortuna non mancano, tratte da realtà vissute da donne coraggiose, che da vittime riescono a trasformarsi in protagoniste.

Come Mara, la prima tra le dieci del libro, una single che “veste da maschiaccio”, da diversi anni assunta in una sede secondaria di una ditta di falegnameria, settore amministrazione, unica figura femminile di un comparto il cui capoufficio, braccio destro del boss di turno, per i modi bruschi e arroganti è temuto dagli stessi operai. Accompagnato in ogni momento da un terranova nero, la sua postazione è nella stessa stanza di Mara.

Le richieste a lei rivolte oltre le mansioni contrattuali, a volte oltre l’orario di lavoro, differiscono e aumentano di giorno in giorno: portare a spasso il cane, recuperare la giacca dal furgone, controllare l’agenda, andare a prendere una bottiglia d’acqua o le sigarette, visto che l’uomo si permette anche di fumare nello spazio comune; e se gli viene fatto notare, la risposta più cortese è di non rompere le palle e di non aprire la finestra, neanche per cambiare l’aria viziata dalle cicche spente nel posacenere.

Poi arriva il momento delle avances, sino al giorno in cui Mara, prima di tornare a casa, viene chiusa all’angolo per strapparle un bacio forzato. Nei mesi seguenti la pressione diventa asfissiante, e neanche la confessione al falegname Francesco, già consapevole della situazione e solidale con lei, riesce ad aiutarla, perché anche lui ha un posto di lavoro da mantenere.

Al padre Mara non racconta tutto, ma la convince a rivolgersi ai sindacati, che le consigliano un legale donna. Qui le verità vengono a galla, e la situazione viene chiamata per nome: molestie sessuali sul lavoro. L’azienda si difenderà arrivando al licenziamento “per giusta causa” nei suoi confronti, ma alla fine di una lunga e complicata battaglia giuridica Mara, che nel frattempo ha cambiato lavoro, sarà non soltanto reintegrata: il suo ex-capo verrà condannato per violenza sessuale.

Una storia a lieto fine, per l’appunto, alla quale se ne alternano altre meno fortunate. Tutte hanno però un denominatore comune, ed è rappresentato da ciò che nella prefazione al volume Susanna Camusso, in qualità di responsabile per le politiche di genere della Cgil, definisce “la responsabilità collettiva, ma innanzi tutto maschile, di uscire da quel tortuoso pensiero per il quale le donne sono vittime ma contemporaneamente sono loro che devono risolvere il problema, sono vittime ma colpevoli”.

Tra l’essere maschi e l’essere uomini corre un profondo abisso, che una consapevolezza comune può aiutare a colmare.