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Mentre vari boomer sfogano le loro patologie contro gli studenti che si rifiutano di sostenere la prova orale alla maturità, ho provato a mettermi nei loro panni tornando al mio esame, nel lontano 1990, quando il voto veniva espresso in 36/60. Ne sono uscito con un misero 37, frutto soprattutto di una preparazione settoriale, limitata prevalentemente alle materie umanistiche, ma anche conseguenza di un diverbio avuto proprio all’inizio del colloquio d’esame con la professoressa d’italiano, membro interno di commissione, che negli ultimi tre anni di liceo classico non aveva fatto altro che entrare in classe (spesso senza salutare troppo), sedersi e aprire il manuale di letteratura, sfogliarlo per suo conto una ventina di minuti, poi chiuderlo e ripeterci quanto appena letto. Dopo qualche mese, quando in aula entrava lei uscivo io: il manuale l’avrei letto a casa con comodo, riuscendo a strappare ogni fine quadrimestre, tra scritto e orale, un’abbondante sufficienza.
Al momento del colloquio da maturando la professoressa mi riconsegna la prova scritta, complessivamente buona. La traccia sulla recentissima caduta del Muro di Berlino era stata svolta nella maniera dovuta, anche se quel riferimento finale a Giacomo Leopardi e “La Ginestra”, il fiore del deserto come simbolo della solidarietà umana, venato di malinconico pessimismo, non riusciva proprio a capire da dove spuntasse, né perché “voi studenti dobbiate sempre essere così pessimisti”. L’occasione è troppo ghiotta: “Beh, finché ci saranno professoresse come lei, c’è poco da stare allegri”. Al palpabile gelo della commissione seguì la piccata replica della professoressa, con tanto di profezia minatoria: “Quelli come lei, nella vita, non combineranno mai nulla”. Oggi, tra i commenti (non tutti) di insegnanti, genitori, presidi, ministri, sembra riecheggiare quella voce.
Cercare invece di capire quali siano i motivi della protesta degli studenti è tema che non appassiona il mondo degli adulti, forse per evitare di guardarsi allo specchio. Perché il non sottoporsi alla discussione orale da parte di alcuni è una precisa critica nei confronti dell’attuale sistema di valutazione dell’esame stesso, e in parte anche del resto del percorso scolastico nelle scuole superiori; quindi l’evidenza di essere promossi comunque, in virtù di una mera somma algebrica incastrata tra scritti, orali e crediti precedenti, indica proprio che qualcosa non quadra, che i conti non tornano, anche con i 60/100.
Si potrebbe aprire un confronto su questi contenuti? Può darsi. Intanto arrivano le minacce del ministro Giuseppe Valditara, già al lavoro con il suo staff per introdurre sin dal prossimo anno una modifica che preveda la bocciatura automatica in caso di “boicottaggio” dell’esame, provvedimento che odora di punizione e ritorsione, e niente più. Eppure anche il ministro dovrebbe provare, ogni tanto, a mettersi nei panni degli studenti.
Scoprirebbe così che in un gruppo classe, nel corso del tempo scolastico, la competizione diventa quasi l’unico valore in campo, alimentato dagli stessi adulti, docenti e famiglie. Al diavolo la formazione individuale e collettiva, la condivisione di idee, l’educazione al rispetto reciproco, la solidarietà verso chi è meno fortunato. D’altronde la stessa dicitura ministeriale, che all’istruzione ha affiancato il merito, ha mostrato quale fosse la strada maestra.
Però mettiamoci d’accordo: se non si può più protestare, venga detto chiaramente. Perché quando gli studenti scendono in piazza, come accaduto a Pisa lo scorso anno, vengono sonoramente manganellati; quando restano chiusi in camera, fagocitati da uno schermo, sono dei poveri rammolliti, dei “bamboccioni”, e ci vorrebbe un altro ’68. Quando poi trovano una forma di protesta pacifica, come questa, arrivando al cuore del problema che vogliono porre, vengono derisi prima, puniti poi.
Nei panni di uno studente italiano, pretenderei spiegazioni da un Paese nel quale, per esempio, l’ateneo privato Link Campus University di Roma viene condannato per aver elargito “esami facili”; e vorrei sapere come mai negli anni ’70 il nome di Geronimo veniva evocato per le coraggiose battaglie del grande capo Apache contro gli usurpatori americani, mentre ora è soltanto il figlio della seconda carica dello Stato, messo alla presidenza dell’Aci con stipendio annuale di oltre 200.000 euro.
Con tanti saluti alla meritocrazia, e a una maturità tutta da (ri)discutere.