L'11 aprile 1987 moriva, probabilmente suicida (benché l’ipotesi di gran lunga più accreditata sia quella del suicidio - «Schiacciato dal fantasma dei lager», titolava il Corriere - alcuni sosterranno che la caduta potesse essere stata provocata dalle forti vertigini di cui Levi soffriva), Primo Levi.

Partigiano antifascista, il 13 dicembre 1943 Primo Levi veniva arrestato dai fascisti in Valle d’Aosta, venendo prima mandato in un campo di raccolta a Fossoli e, nel febbraio dell’anno successivo, deportato nel campo di concentramento di Auschwitz in quanto ebreo.

Scampato al lager, tornerà in Italia, dove si dedicherà con impegno al compito di raccontare le atrocità viste e subite alla cui narrazione dedicherà la sua intera esistenza.

I funerali dello scrittore cominciano alle 14 e 30 del 13 aprile 1987 all’Istituto di Medicina legale. Alle esequie prendono parte Norberto Bobbio, Giulio Einaudi, Piero Fassino, i colleghi della Siva (Società industriale vernici affini di Settimo Torinese dove Levi aveva lavorato per trent’anni), associazioni di deportati, ragazzi con la kippa.

Gli assenti

“Assente il governo - riportava Repubblica - distratto di fronte al dramma e tutto compreso in altre operazioni. Assente la grande industria torinese. Assente la grande finanza, il mondo delle banche, l’economia torinese. Levi non aveva nulla a che fare con quel mondo osserva qualcuno. È vero. Ma l’assenza c’è e si nota. C’è invece la Torino che ha amato e capito lo scrittore, quella che ha sempre visto in lui l’insostituibile testimone dell’immane tragedia dei campi di sterminio di cui era stato vittima-protagonista. Ci sono i fazzoletti a strisce blu e grigie degli ex deportati politici presenti con il presidente nazionale dell’Associazione, senatore Maris, e con il vicepresidente Dario Segre. Sono loro che portano a spalla il feretro dietro il gonfalone decorato dell’Associazione”.

“È morto un autore le cui opere ce le troveremo di fronte al momento del Giudizio Universale”, sarà - sul Corriere della Sera - il commento di Claudio Magris.

Il compito di testimoniare

“Primo Levi - affermava Tullia Zevi, presidente dell’Unione delle comunità israelitiche - si era assunto il compito di ricordare e ammonire di fronte alle tendenze revisioniste della storia che portano ad incoraggiare l’oblio. Il passato, diceva e scriveva e testimoniava, va ricordato perché chi lo dimentica è condannato a riviverlo. Levi ha svolto questo compito con profondo senso di umanità, senza alcuno spirito di vendetta, con grande pacatezza, senza retorica, con nobiltà. Malgrado le testimonianze agghiaccianti dell’Olocausto da lui rese, nelle sue pagine non c' è traccia di odio o rancore: ricordava perché tutti ricordassero, perché l’umanità non ripiombasse negli errori e negli orrori del passato. Anche nella sua ultima opera I sommersi e i salvati Primo Levi ha elevato un tributo a chi non era riuscito a sopravvivere, ha reso omaggio ai veri martiri, a coloro che non sono sopravvissuti, sommersi dall’orrore”.

“Quando ho cominciato a leggere Primo Levi - dirà anni dopo Liliana Segre - mi sono resa conto di ciò che ancora non avevo capito, elaborato, e che aveva trovato le parole giuste per descrivere l’indicibile. Il mondo aberrante del lager dove ho vissuto richiedeva un passaggio che Levi ben descrive nel suo libro dal titolo ‘La tregua’. Se uno esce di prigione dopo aver scontato una pena si immerge nuovamente nella quotidianità con un percorso di reinserimento più o meno lungo, in funzione anche della durata della pena, ma pur sempre cosciente della realtà che lo circonda. Se, per ipotesi, un lager fosse stato improvvisamente aperto dagli aguzzini per lasciare liberi i detenuti, questi non potevano pensare di ritornare a contatto con la realtà: nei lager c’era una non vita che cancellava sentimenti, annientava le menti, oltre che i corpi, disumanizzava ogni essere che pur manteneva, di umano, le fattezze. Un’uscita improvvisa dai lager poteva portare alla follia”.

“Così - scriveva ne La tregua - per noi anche l’ora della libertà suonò grave e chiusa, e ci riempì gli animi, ad un tempo, di gioia e di un doloroso senso del pudore, per cui avremmo voluto lavare le nostre coscienze e le nostre memorie della bruttura che vi giaceva: e di pena, perché sentivamo che questo non poteva avvenire, che nulla mai più sarebbe potuto avvenire di così buono e puro da cancellare il nostro passato, e che i segni dell’offesa sarebbero rimasti in noi per sempre, e nei ricordi di chi vi ha assistito, e nei luoghi ove avvenne, e nei racconti che ne avremmo fatti. Poiché, ed è questo il tremendo privilegio della nostra generazione e del mio popolo, nessuno mai ha potuto meglio di noi cogliere la natura insanabile dell’offesa, che dilaga come un contagio. È stolto pensare che la giustizia umana la estingua. Essa è una inesauribile fonte di male: spezza il corpo e l’anima dei sommersi, li spegne e li rende abietti; risale come infamia sugli oppressori, si perpetua come odio nei superstiti, e pullula in mille modi, contro la stessa volontà di tutti, come sete di vendetta, come cedimento morale, come negazione, come stanchezza, come rinuncia”.