Lo scambio e il dialogo tra generazioni, i temi del lavoro e della solidarietà e, in particolare, quello della pace quotidiana. Anche quest’anno torna Memory Ciak, sezione speciale del Premio Bookciak, Azione! 2024, promosso dalla Bookciak Magazine, e realizzato con la Fondazione Archivio Audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico e il Premio Cesare Zavattini, in collaborazione con Spi Ccgil e LiberEtà. I concorrenti, massimo 35 anni, potranno inviare i loro corti entro il 10 giugno, ispirandosi alle pagine del libro Il ragazzo con la tuta blu di Peppe Lomonaco (LiberEtà, 2024).

Ogni anno LiberEtà dà a scrittori non professionisti l’opportunità di raccontare nella forma di un romanzo le memorie più intime e importanti legate alla loro vita lavorativa. Come quelle dell’autore selezionato quest’anno anche per i Memory Ciak, Giuseppe Lomonaco.

Lomonaco, com’è nata in lei la voglia di scrivere un libro a partire dalla sua vita?

Al mio livello non è neanche detto che ciò che si scrive possa diventare un libro però quella di scrivere è una passione che ho da quando frequentavo le medie. Poi l’avevo abbandonata, e dopo anni è rispuntata fuori. Pescando nei ricordi della mia vita, è riaffiorata questa esperienza di fabbrica vissuta tra i diciotto e i ventiquattro anni. In quegli anni mi lasciai alle spalle la società agricola da cui provenivo, nella zona del Metapontino, perché non offriva grandi opportunità di crescita e quindi me ne andai. La storia del libro però non è tutta autobiografica, ho pescato anche dal vissuto di un mio conoscente, che fu molto meno fortunato di me e che visse la vicenda tragica che viene narrata nel libro.

Il romanzo racconta un periodo particolare della sua vita. L’esperienza in fabbrica, da emigrante, partito dalla Puglia per approdare a Milano. A differenza di quanto capita nella maggioranza dei casi, però, lei è riuscito a ritornare indietro. Cosa è successo?

C’è stata per me una svolta, la possibilità di tornare al mio paese al Sud, dove vivo tutt’ora. Ebbi l’occasione di frequentare un concorso per diventare vigile urbano e feci questo lavoro per otto anni, anche se non era il mio, non mi si addiceva. Però lo feci, alla ricerca di una stabilità lavorativa. Successivamente partecipai a un concorso indetto dal Comune per un posto come impiegato di concetto, così sì chiamava allora. Se nella mia vita mi sono sempre salvato è stato solo grazie alla lettura. Amavo leggere e questa cosa mi permetteva di mettere insieme dieci parole, mentre magari un altro che non leggeva ne metteva insieme cinque.

Si ricorda quale fu il primo libro che ha letto?

Mi pare frequentavo la seconda media e mi capitò tre le mani Il conte di Montecristo. Ne rimasi affascinato così tanto che da quel momento ebbi la certezza che avrei continuato a leggere e questo è stato per me decisivo. Non ho fatto studi “alti”. Ho frequentato disordinatamente le medie e le superiori, un anno con un corso serale, per guadagnarmi la qualifica che poi mi avrebbe permesso di entrare in fabbrica. La mia salvezza fu quando, nel 1966, uscirono gli Oscar Mondadori, che arrivavano anche nel mio paesello dove c'era un'edicola. Il primo che comprai fu Hemingway, Addio alle armi. E poi ho letto tutto Pavese, Carlo Levi. Cristo si è fermato a Eboli non uscì negli Oscar, ma lo comprai lo stesso. Costava 700 lire, mezza giornata della mia paga.

Lei ci racconta di una formazione culturale da autodidatta, costruita pezzo dopo pezzo. Quanto ha influito su questo anche la sua formazione politica?

Mio padre era un bracciale, frequentava la sezione del partito, il sindacato, e questa cosa inevitabilmente ha influito sulla formazione. Poi frequentavo il circolo popolare di cultura giovanile, ho fatto anche attività sindacale per un po' di anni. Se vivevi in un piccolo centro del Sud, non avevi molte alternative al lavoro nei campi. Però io feci un passo da gigante, grazie a un corso professionale che organizzava l’AssoLombarda, rivolto a un certo numero di ragazzi disoccupati provenienti dalle province italiane più svantaggiate. Feci domanda e passai le selezioni, a cui partecipammo in centinaia, mentre i posti erano solo settantacinque. Questo mi cambiò la vita. Feci i bagagli e mi trasferii a Milano per frequentare questo corso di un anno. C’era una parte teorica e poi una che prevedeva molte ore di pratica in officina, per cui dopo un anno di corso fummo direttamente inseriti in fabbrica con una qualifica, invece che come apprendisti alla catena di montaggio.

Che cos'è che le è rimasto più impresso di quel periodo della sua vita trascorso in fabbrica?

Vissi in pieno il ’69. La nostra non era una fabbrica come la Pirelli, la Breda o l'Alfa Romeo, dove il sindacato era molto presente, strutturato e aveva una voce forte. No, la nostra era un'azienda con qualche centinaio di dipendenti, molti di noi giovanissimi, senza una famiglia da mantenere. E forse anche questo ci diede il coraggio per scioperare, per farci sentire da una proprietà molto ostile.

Come vive oggi la sua vita da pensionato?

Faccio tante cose. Coltivo la terra, perché mio padre ci lasciò in eredità dei terreni che era riuscito a comprarsi con tanta fatica. Ho messo su un uliveto. Poi dedico tanto tempo alla lettura, scrivo molto. Non vedo televisione, ma mi tengo informato. Fino a qualche anno fa compravo i giornali, ora vado su internet. Faccio parte di un’associazione culturale che si chiama “Fatti non foste”, citando Dante. E poi cammino, cammino tanto. Un’ora e mezza di cammino ogni mattina, nella mia campagna. Vado insieme ad altri amici, chiacchieriamo. Camminiamo e nel frattempo ci scambiamo le nostre idee.