Ieri sera ha debuttato su Rai 1 L’altro ispettore, la serie Tv che porta in prima serata il tema delle morti sul lavoro. Dopo Montalbano, Ricciardi, Lolita Lobosco e Imma Tataranni, un nuovo personaggio dedito alle indagini e ispirato a un romanzo, quello omonimo di Pasquale Sgrò, lui stesso con un passato da ispettore del lavoro. O, come ci tiene a precisare il protagonista: l’altro. Ma è già tutta nel titolo la fragilità narrativa del soggetto. 

Alessio Vassallo veste i panni di Mimmo Dodaro che torna a Lucca con la figlia Mimì dopo diversi anni. Qui ritrova la madre, l’amico di famiglia Alessandro (sulla sedia a rotelle dopo un incidente in azienda), e si ritrova a collaborare con una vecchia compagna di scuola, Raffaella Pacini (Francesca Inaudi). Mimmo non fa neanche in tempo a svuotare gli scatoloni del trasloco che si trova a indagare sulla morte di una giovane operaia in fabbrica per via di un blocco a una macchina che è stato manomesso.

La storia è liberamente ispirata a quella di Luana D’Orazio, a cui la puntata è stata dedicata. E questo è sicuramente il più grande pregio della serie: vedere in prima serata il nome di Luana D’Orazio, sentire parlare di infortuni sul lavoro, sicurezza nei cantieri edili, appalti al ribasso è sicuramente una novità importante. Ma ci si ferma qui. Dire che L’altro ispettore sia un’operazione importante per sensibilizzare il grande pubblico al tema dei morti sul lavoro è un conto. Affermare che lo faccia con un linguaggio e uno sviluppo narrativo che riesce ad andare oltre la narcolettica postura da chi attende Porta a Porta con un occhio aperto e uno chiuso, è altro.

Il problema sta sempre lì, nel pubblico che la Rai pensa di avere di fronte. Nel paese a cui il servizio pubblico – e dunque le istituzioni – pensano di dover parlare. Un pubblico da quinta elementare – con tutto il dovuto rispetto per i bambini della quinta elementare – al quale si devono “spiegare” le cose, a partire dall’A, B, C.

La serie – nella migliore tradizione di Rai 1 – sembra dirci “ecco, questi sono i buoni, questi sono i cattivi ma non troppo”. Il caporeparto che ha manomesso le protezioni della macchina lo ha fatto perché “il proprietario è per lui un figlio, e non poteva farlo fallire”. L’operaio del cantiere edile che abbandona per strada l’immigrato in nero lo ha fatto perché “non può perdere il suo lavoro”. Ma in tutto questo, i padroni dove sono?

La ricerca di una morale attenuante a tutti i costi finisce per annacquare le intenzioni iniziali. Così come la scelta di una trama che non lascia spazio alle sorprese. Già dalla prima puntata gli ingredienti ci sono tutti: il padre vedovo e la figlioletta saggia cresciuta presto, la nonna che alla terza puntata comincerà a intendersela con l’amico di famiglia (che però nasconde un segreto), il triangolo amoroso con la bionda, la rossa e in mezzo l’uomo bello ma buono che deve ricomporre i pezzi del suo cuore. Tuttavia, in tutta questa serie di elementi e personaggi, manca quello forse fondamentale: il sindacato.

Colpisce ma non stupisce, trattandosi di un’operazione piuttosto istituzionale. E così, in settanta minuti di film sulle morti sul lavoro, si riesce nell’operazione di far sparire del tutto il sindacato. A essere precisi, una sindacalista c’è: fa due pose, dice due battute, non si sa che qualifica abbia e da quale categoria venga. Ma soprattutto, nel rivolgersi a lei la pm, amica di Mimmo, la chiama “dottoressa”. “A Ivà, ma chi vi scrive i testi”? Come chiedeva un invitato in un film cult di Carlo Verdone. E qui concludiamo da dove siamo partiti: Il titolo, L’altro ispettore. Ma perché l’altro? Ma soprattutto, quale? E perché una scelta così sbiadita?

Domande retoriche, che trovano risposta in quello che continua a essere il compitino di un servizio pubblico che parla a un popolo credendo che sia bue. Ma soprattutto, che basti dire “almeno se ne parla” per ammantare un’operazione televisiva di un qualche valore. Però, dall’altra parte dello schermo, il pubblico non è tutto uguale: ce n’è anche uno che non si vuole accontentare, che vuole discutere e pensare. A questo punto aridatece Montalbano, aridatece il Maresciallo Rocca. Aridatece pure Un medico in famiglia che sì, era troppo buono e buonista. Ma almeno erano gli anni Novanta.

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