Pier Paolo Pasolini, poeta, sceneggiatore, attore, regista e scrittore, nasceva esattamente 100 anni fa a Bologna il 5 marzo 1922.  Dopo aver seguito nell’infanzia gli spostamenti del padre, ufficiale di carriera, compie gli studi a Bologna, dove si laurea nel 1945 con una tesi su Pascoli. 

Nel 1943 si trasferisce nel paese materno di Casarsa della Delizia, in Friuli, con la madre e il fratello minore Guido, morto poi nella lotta di Resistenza, e vi rimane fino ai primi mesi del 1950, quando, per sfuggire allo scandalo provocato dalla pubblica denuncia della sua omosessualità, si stabilisce con la madre a Roma (il 26 ottobre del 1949 lo scrittore era stato espulso dalla Federazione comunista di Pordenone per indegnità morale e politica).

“Ormai su di me c’è il segno di Rimbaud o di Campana o anche di Wilde, ch’io lo voglia o no, che gli altri lo accettino o no”, scriveva in una lettera inviata il 10 febbraio 1950 a Silvana Mauri, “la donna che avrei potuto amare (…) e l’unica che fino a un certo limite ho amato”. 

“Fuggii con mia madre - scriverà - e una valigia e un po’ di gioie che risultarono false, / su un treno lento come un merci, / per la pianura friulana coperta da un leggero e duro strato di neve. / Andavamo verso Roma. / Avevamo dunque, abbandonato mio padre / accanto a una stufetta di poveri, / col suo vecchio pastrano militare / e le sue orrende furie di malato di cirrosi e sindromi paranoidee. / Ho vissuto /quella  pagina di romanzo, l’unica della mia vita: / per il resto, che volete, / son vissuto dentro una lirica, come ogni ossesso”.

Sono gli anni in cui scopre le borgate romane. Pubblica La meglio gioventù, Ragazzi di vita, realizza i suoi primi film da regista e soggettista.

Negli anni della contestazione studentesca assume una posizione originale rispetto al resto della cultura di sinistra (“Pasolini - scriverà Riccardo Terzi - rappresenta, a mio giudizio, lo sguardo critico che vede per tempo, più di qualsiasi altro, tutto il groviglio delle contraddizioni del “movimento” del ‘68, la sua interna fragilità culturale e il suo possibile destino di svuotamento e di fallimento. Ed è una critica condotta dall’interno, in un complicato rapporto tra condivisione e rifiuto, tra attrazione e repulsione, il che lo conduce in una difficile condizione di incomprensione, e spesso di isolamento”) e nel 1972 decide di collaborare con i giovani di Lotta Continua firmando insieme ad alcuni di loro il documentario 12 dicembre sulla strage di piazza Fontana a Milano  (“Io so - scriverà nel novembre del 1974 - i nomi dei responsabili di quello che viene chiamato ‘golpe’ (e che in realtà è una serie di ‘golpe’ istituitasi a sistema di protezione del potere). Io so i nomi dei responsabili della strage di Milano del 12 dicembre 1969. Io so i nomi dei responsabili delle stragi di Brescia e di Bologna dei primi mesi del 1974. Io so i nomi del ‘vertice’ che ha manovrato, dunque, sia i vecchi fascisti ideatori di ‘golpe’, sia i neo-fascisti autori materiali delle prime stragi, sia infine, gli "ignoti" autori materiali delle stragi più recenti. Io so i nomi che hanno gestito le due differenti, anzi, opposte, fasi della tensione: una prima fase anticomunista (Milano 1969) e una seconda fase antifascista (Brescia e Bologna 1974). Io so i nomi del gruppo di potenti, che, con l'aiuto della Cia (e in second’ordine dei colonnelli greci della mafia), hanno prima creato (del resto miseramente fallendo) una crociata anticomunista, a tamponare il ’68, e in seguito, sempre con l’aiuto e per ispirazione della Cia, si sono ricostituiti una verginità antifascista, a tamponare il disastro del ‘referendum’”).

Nel 1973 comincia la collaborazione al Corriere della Sera e nel 1975 pubblica Scritti corsari. Il 2 novembre dello stesso anno viene ucciso. 

“Dicono che tu fossi capace d’essere allegro - scriverà pochi giorni dopo la sua morte Oriana Fallaci - chiassoso, e che per questo ti piacesse la compagnia della gioventù: giocare a calcio, per esempio, con i ragazzi delle borgate. Ma io non ti ho mai visto così. La malinconia te la portavi addosso come un profumo e la tragedia era l’unica situazione umana che tu capissi veramente (…) Ogni volta io avrei voluto agguantarti per il giubbotto, trattenerti, implorarti, ripeterti ciò che ti avevo detto a New York: 'Ti farai tagliare la gola, Pier Paolo!'. Avrei voluto gridarti che non ne avevi il diritto perché la tua vita non apparteneva a te e basta, alla tua sete di salvezza e basta. Apparteneva a tutti noi. E noi ne avevamo bisogno. Non esisteva nessun altro in Italia capace di svelare la verità come la svelavi tu, capace di farci pensare come ci facevi pensare tu, di educarci alla coscienza civile come ci educavi tu”.

“Io ero - dirà Sciascia - e lo dicevo senza vantarmene, dolorosamente la sola persona in Italia con cui lui potesse veramente parlare. Negli ultimi anni abbiamo pensato le stesse cose, dette le stesse cose, sofferto e pagato per le stesse cose. Eppure non siamo riusciti a parlarci, a dialogare. Non posso che mettere il torto dalla mia parte, la ragione dalla sua. E voglio ancora dire ancora una cosa, al di là dell’angoscioso fatto personale: la sua morte quali che siano i motivi per cui è stato ucciso, quali siano i sordidi e torbidi particolari che verranno fuori, io la vedo come una tragica testimonianza di verità, di quella verità che egli ha concitatamente dibattuto scrivendo, nell’ultimo numero del Mondo, una lettera a Italo Calvino”.

“Caro Calvino - scriveva il poeta l’8 luglio 1974 su Paese Sera - Maurizio Ferrara dice che io rimpiango un’ “età dell’oro”, tu dici che rimpiango l’ “Italietta”: tutti dicono che rimpiango qualcosa, facendo di questo rimpianto un valore negativo e quindi un facile bersaglio. (…) L’“Italietta” è piccolo-borghese, fascista, democristiana; è provinciale e ai margini della storia; la sua cultura è un umanesimo scolastico formale e volgare. Vuoi che rimpianga tutto questo? Per quel che mi riguarda personalmente, questa Italietta è stata un paese di gendarmi che mi ha arrestato, processato, perseguitato, tormentato, linciato per quasi due decenni. (…) Io so bene, caro Calvino, come si svolge la vita di un intellettuale. Lo so perché, in parte, è anche la mia vita. Letture, solitudini al laboratorio, cerchie in genere di pochi amici e molti conoscenti, tutti intellettuali e borghesi. Una vita di lavoro e sostanzialmente perbene. Ma io, come il dottor Hyde, ho un’altra vita. Nel vivere questa vita, devo rompere le barriere naturali (e innocenti) di classe. Sfondare le pareti dell’Italietta, e sospingermi quindi in un altro mondo: il mondo contadino, il mondo sottoproletario e il mondo operaio”.

Sento tossire l’operaio che lavora qui sotto;
la sua tosse arriva attraverso le grate che dal pianterreno
danno nel mio giardino. Sicché essa pare risuonare tra le piante
toccate dal sole dell’ultima mattina di bel tempo. Egli,
l’operaio, là sotto, intento al suo lavoro, tossisce ogni tanto,
certamente sicuro che nessuno lo senta. È un male di stagione
ma la sua tosse non è bella; è qualcosa di peggio che influenza.
Egli sopporta il male, e se lo cura, immagino, come noi
da ragazzi. La vita per lui è rimasta decisamente scomoda;
non l’aspetta nessun riposo, a casa, dopo il lavoro,
come noi, appunto, ragazzi o poveri o quasi poveri.
Guarda, la vita ci pareva consistere tutta in quella povertà,
in cui non si ha diritto neanche, e con naturalezza,
all’uso tranquillo di una latrina o alla solitudine di un letto;
e quando viene il male, esso è accolto eroicamente:
un operaio ha sempre diciotto anni, anche se ha figli
più grandi di lui, nuovi agli eroismi.
Insomma, a quei colpi di tosse
mi si rivela il tragico senso di questo bel sole di ottobre.