Ricordare oggi gli scioperi del 1943-45 non è un mero esercizio retorico, non è semplice memorialistica: è al contrario estremamente utile, da un punto di vista politico e civile, ricordare in un biennio così importante della nostra Storia. I nessi e i punti di contatto con la realtà odierna non mancano, del resto. Tornare su quei fatti può perciò fornirci delle chiavi di lettura non banali e più precise per confrontarci con temi e questione di non facile risoluzione.

Ricordare quegli eventi ci restituisce innanzitutto il dato più immediatamente “umano” di quella vicenda, legato alla tragedia della guerra e alle sue ricadute sul vissuto dei singoli. La loro rilevanza è legata poi anche al contributo degli gli scioperi del 1943-45 rispetto alla formazione di un patrimonio valoriale e dei codici di comportamento tramandati fino ad oggi. Degli elementi, questi, che attengono direttamente alla memoria pubblica e ai suoi processi di costruzione. Infine, la rilevanza degli scioperi del ‘43 è da vedere nel suo legame con la forma democratico-repubblicana che tra il ‘46 e il ‘48 vede la luce. La nostra Costituzione e la nostra democrazia nascono esattamente a partire da quegli avvenimenti: è il protagonismo operaio, infatti, che fonda il nuovo compromesso costituzionale.

Rispetto alle vicende belliche, la carica dirompente degli scioperi del ‘43 risiede nella loro capacità di aprire un conflitto nel punto più delicato dell’apparato che alimentava la guerra. Nei progetti del regime, del resto, gli operai di fabbrica rappresentano la colonna portante dello Stato corporativo, necessaria tanto alla visione totalitaria del fascismo, quanto alla sua propensione imperialistica e militaresca: la loro “diserzione” civile ne fa un soggetto sociale collettivo in grado di prendere coscienza del proprio ruolo strategico all’interno dello sforzo bellico e di assumere un ruolo conflittuale tale da mettere in crisi il meccanismo produttivo che sottende lo sforzo militare. 

La rottura avviene dunque sul terreno dell’adesione o del rifiuto della guerra fascista, ovvero, sull’elemento più intrinsecamente legato all’esperienza del ventennio. Sta qui l’estrema politicità degli scioperi in oggetto: ogni rivendicazione è immediatamente politica dal momento che riguarda la questione politica per eccellenza, cioè la guerra. Tutto è subito e irrimediabilmente politico: la fabbrica che lavora per la guerra è ontologicamente uno spazio politico.

A differenza poi di altri gruppi sociali, che in quel frangente privilegiano l’attendismo e la “fuga nel privato”, in attesa che la guerra finisca portandosi con sé il fascismo (quell’atteggiamento che è stato definito dagli storici come la “zona grigia” tra consenso e dissenso), per la classe operaia questo atteggiamento non è in alcun modo possibile. Nella guerra che volge al peggio la condizione di costrizione assume forme insopportabili, diventa onnipresente: nella fabbrica perché lo sfruttamento maggiore, fuori dalla fabbrica perché le città sono bombardate e mal rifornite.

L’azione generale del mondo operaio trasforma immediatamente le singole rivendicazioni sindacali nell’azione politica espressione dell’unico soggetto sociale che durante la guerra può ribaltare gli equilibri di potere. L’azione collettiva del 1943-45 conferirà ai lavoratori una legittimità che, nell’Italia democratica, mancherà a tutti gli altri soggetti sociali.

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Edmondo Montali e Mattia Gambilonghi, Fondazione Di Vittorio