È il 9 ottobre 2016, siamo a Torino: un gruppo di circa cinquanta rider organizza uno sciopero in piazza Vittorio Veneto. Nel preciso istante in cui sfilano con le bandiere attaccate alle biciclette, quei ragazzi sono forse inconsapevoli di quello che sta per succedere subito dopo. Non sanno che la battaglia dei fattorini non si fermerà lì, ma anzi è destinata a diventare un simbolo nel moderno mercato del lavoro, a egemonizzare il dibattito anche accademico. Per le grandi conquiste bisogna aspettare il 2020, ma per capire come ci si arriva è necessario compiere diversi passi indietro, andando alla genesi di questo fenomeno e scoprendo come le ultime vittorie siano il frutto di un percorso costruito passo dopo passo.

Quella torinese dell’autunno 2016 è la prima manifestazione italiana, ma si inserisce in un contesto internazionale che nello stesso periodo vede sorgere, in molte capitali europee e non, la mobilitazione di un popolo con lo zaino cubico in spalla e il caschetto in tinta abbinata. Già il 4 ottobre 2016 ne parla il giornalista Andrea Paracchini su LifeGate, testata online che si occupa di sostenibilità, riferendosi alle vicende di Parigi. «I fattorini in bici sono il simbolo di una nuova logistica urbana sostenibile – scrive nel sommario. Eppure, le loro condizioni di lavoro ricordano molto il passato».

A rileggerlo oggi, appare come un’ineccepibile intuizione. Solo cinque giorni dopo, infatti, arriva nel nostro Paese l’azione messa in campo nel capoluogo piemontese, e trova subito un discreto spazio sui media. La vicenda viene trattata più che altro come una curiosità, un’occasione per affrontare il tema del lavoro – almeno per un giorno senza necessariamente dover raccontare le cronache di una fabbrica. La miccia che fa scattare la protesta dei fattorini torinesi è una scelta comunicata pochi giorni prima da Foodora: abolire il salario orario da 5 euro, già di per sé basso e per nulla legato a contratti collettivi, e introdurre il sistema dei pagamenti a consegna. Una tariffa da 2,70 euro per ogni ordine portato a casa del cliente. Il cottimo – considerato un retaggio del passato dopo decenni di lotte operaie – ritorna così di prepotenza. A farlo rinascere è un’azienda che si dichiara una start up innovativa, pronta a rivoluzionare – insieme a un oligopolio di imprese simili – l’intero settore del food delivery. Questa involuzione di diritti colpisce una categoria fatta soprattutto da giovani, che però non può più essere considerata quella di un tempo, quella che trasporta pizze solo per arrotondare e pagarsi gli studi o le vacanze. Tra loro, ormai, c’è anche chi svolge quello come lavoro principale. In un primo momento, la stampa associa l’episodio alla cosiddetta «sharing economy», cioè l’economia della condivisione.

In sostanza, la vicenda dei rider che operano per le app digitali viene equiparata a quella di Airbnb. Solo che, mentre in quest’ultimo caso si mette a disposizione un proprio appartamento in affitto, i fattorini mettono a disposizione il proprio mezzo di trasporto – di solito la bicicletta o al massimo il motorino – e un po’ del proprio tempo. È evidente che il paragone non può reggere, perciò si passa subito alla definizione di «gig economy», cioè economia delle piccole prestazioni. Il lavoratore non viene assunto per una produzione continuativa, contrattualizzata, organizzata, retribuita a ore e tutelata in caso di malattia, maternità e infortunio; viene semplicemente utilizzato nel momento in cui c’è bisogno di lui, con un rapporto che inizia non appena riceve l’ordine sullo smartphone quello suo personale, non fornito dal datore e si esaurisce nel momento in cui il cartone della pizza passa nelle mani del consumatore.

Sostenibilità o morte

Sin dagli albori della protesta è chiara anche la strategia «difensiva» delle società titolari di queste piattaforme. «Questa nuova politica dell’azienda è un’opportunità per la nostra flotta – dicono gli allora amministratori di Foodora Gianluca Cocco e Andrea Lentini, commentando lo sciopero. Perché possono guadagnare di più facendo più consegne all’ora. Come, per altro, fatto notare dagli stessi rider con cui abbiamo parlato che ci dicevano di fare anche tre consegne nello stesso tempo. Il tempo medio di un servizio a Torino è 29 minuti». Parole che, viste con la consapevolezza nel frattempo maturata, risuonano come un manifesto che riassume il modo di pensare delle app del cibo a domicilio: il diritto, quale può essere lo stipendio orario e gli istituti alla subordinazione, non è una conquista, ma un qualcosa che mortifica la competitività.

La negazione del modello del lavoro dipendente, in cui il rischio di impresa è in capo al datore e il lavoratore deve invece solo garantire di svolgere correttamente la prestazione per il tempo stabilito, è un reperto archeologico da consegnare appunto al passato. Ma soprattutto, l’idea è che questa sia un’opportunità e, se non viene colta, passerà ad altri, quindi tanto vale non farsela sfuggire. Alle imprese di questo settore va riconosciuto quantomeno il merito di uscire immediatamente allo scoperto e non far trasparire un volto diverso rispetto alla sostanza. Questo è il nostro modello, scandiscono, solo così è sostenibile, perciò o ci permettete di metterlo in pratica o smettiamo di investire in questo Paese. Anche questo contribuisce a rendere quello dei rider un fenomeno mediatico. Mostra a tutti le insidie che si nascondono dietro le innovazioni, il lato oscuro delle nostre nuove abitudini di vita, la sottile linea di confine tra il vantaggio di un cliente che riceve un servizio rapido ed economico di consegna e la condizione dei lavoratori coinvolti.

I fattorini sono circa 20 mila, un numero molto contenuto rispetto al totale degli occupati italiani e di proporzioni ridotte rispetto ad altri settori. La risonanza ottenuta deriva però da quello che rappresentano al di là delle proporzioni: le vittime di una modernità che non riesce a conciliarsi con il rispetto dei diritti. Una modernità cattiva che potrebbe in futuro travolgere altri settori dell’economia con la stessa spregiudicatezza.