Il cinema torna a occuparsi di lavoro. Non ha mai smesso, naturalmente, perché i nodi dell'occupazione entrano in modo frontale o periferico in molti titoli del presente: ma soprattutto oggi, tra pandemia e nuova guerra, con la riscrittura dei codici della vita quotidiana, il tema lavoro non può che essere centrale. Anche sugli schermi, grandi o piccoli che siano. E il caso non esiste: una serie di film usciti in sala nell'ultimo periodo pongono con forza la questione, la problematizzano, vi riflettono sopra. In modo non riconciliato: offrono inquadrature problematiche sull'oggi, lasciano problemi aperti. Sono pensati, ideati e girati principalmente prima del Covid, certo, ma comunque puntano l'obiettivo su questo "nuovo mondo".

Prima di tutto c'è il ritorno al cinema di Stéphane Brizé. È il regista, per chi non lo conosce, de La legge del mercato e In guerra, due film che hanno riscritto le coordinate del cinema lavoristico negli ultimi anni: il primo mostrando la parabola di un licenziato, che si trova a fare da guardia in un ipermercato per rintracciare i furti dei nuovi poveri, quelli come lui. L'altro racconta un sindacalista che guida una grande mobilitazione contro la chiusura della sua fabbrica, guidata da una multinazionale con la proprietà all'estero: una guerra prima della guerra, ossia il conflitto che dura da sempre, la guerra del lavoro.

Il cineasta francese chiude la trilogia lavoristica con l'ultimo film, Un altro mondo, interpretato sempre dallo stesso attore, un magnifico Vincent Lindon (archivio - la nostra intervista). Solo che stavolta c'è il salto della barricata: è la storia di un dirigente che viene chiamato a tagliare 58 posti di lavoro nella sua azienda. Si tratta ancora di una multinazionale, un mostro senza testa, dove ogni responsabile ne ha un altro invisibile, le riunioni dei capi si fanno in videochat. I lavoratori vengono licenziati per il mercato e gli azionisti, non perché c’è la crisi. Da parte sua Philippe è un dirigente contemporaneo che esegue, non può intervenire, riflettere non è suo compito: si ripete spesso che così ha deciso la proprietà e dunque è ineluttabile. Il film pone il nodo complesso della scomparsa del pensiero aziendale, in favore di una meccanica dell'esecuzione per cui i dirigenti non pensano più, non esisterà un nuovo Olivetti, non c'è spazio per il capo illuminato. Nel frattempo Philippe vede la vita personale andare in frantumi, segnata dal divorzio e dalle difficoltà col figlio, e prova ad avanzare una proposta alternativa: tagliare una parte dei bonus dei manager per salvare gli operai. I capi immateriali però non saranno d'accordo...

Se per inquadrare opportunamente il lavoro bisogna entrare nella testa dei dirigenti, poi però si torna indietro, si torna alla carne viva e lacerata dei lavoratori. Le persone comuni. In particolare le donne. È peculiare l'operazione realizzata dal regista Éric Gravel (ancora un francese) con Full Time, dal titolo originale À plein temps, a tempo pieno: il film segue "solo" la giornata di una donna, Julie incarnata in Laure Calamy, madre single di due figli che si alza all'alba e va a fare la lavoratrice delle pulizie in un hotel di lusso. Tutto qui. Si fa per dire. Nell'arco di 85 minuti viene inscenato il movimento vorticoso della donna che non si ferma mai, è costretta a portarsi velocemente da una parte all'altra, chiedere passaggi e favori agli amici, affidare i bambini alla vicina di casa per riprenderli soltanto di notte. Una come tante. La differenza la fa, oltre alla memorabile prova dell'attrice, la cinepresa dell'autore: il moto perpetuo di Julie viene inquadrato senza interruzioni, ponendo sullo stesso piano il tempo dell'impiego e della cura dei figli (ecco la grande intuizione: una donna ha due lavori). Alla messinscena si imprime il ritmo di un vero e proprio thriller. Un thriller sul lavoro di oggi: l'obiettivo non è scoprire il colpevole, ma arrivare a fine giornata.

Juliette Binoche si mescola alle lavoratrici dei ferryboat nel film Tra due mondi, diretto dallo scrittore Emmanuel Carrère. Il quale adatta sullo schermo l'inchiesta giornalistica della cronista francese Florence Aubenas, dal titolo Ouistreham (in italiano La scatola rossa, edizioni Piemme) sulle lavoratrici delle pulizie che operano nei traghetti attraverso la Manica. All'insegna dello sfruttamento: le donne lavorano di notte e guadagnano 7,49 euro l'ora con i tempi misurati dai capi, ovvero devono impiegare massimo quattro minuti per sistemare totalmente una stanza, per un totale di 230 camere a turno. E riportano gravi problemi fisici, come dolore alle braccia e forti mal di schiena. Proprio come fece la giornalista Florence, Binoche si finge una di loro, si mescola alle lavoratrici e ne segue l'odissea, ne affronta l'inferno: dalle condizioni sfiancanti alla precarietà, con licenziamenti arbitrari a seconda della convenienza, per esempio nei confronti di donne troppo lente o troppo anziane. In apparenza c'è un solo modo per provare le stesse sensazioni: diventare una di loro.

Allo stesso tempo, però, si insinua anche un sottile nodo che diventa questione di coscienza. La cronista Binoche può realizzare uno scoop, lanciare una denuncia potente, ma alla fine dei conti non sarà mai una lavoratrice dei ferryboat, starà sempre su un altro livello privilegiato. È qui che il film pone la questione più amara e dolorosa, forse perfino oltre le condizioni vergognose: come raccontare questa realtà? È etico mascherarsi da lavoratrice povera, fingersi una di loro? “Dicci quanto guadagni”, intima a Marianne la sua migliore amica, e lei non risponde. Il racconto marca visivamente il contrasto nel momento della presentazione del libro, quando Marianne torna a essere Juliette Binoche, elegante e regale, nel suo vestito da sera a confronto con le tute da lavoro arancioni delle donne-operaie. E si svela il senso di scegliere come protagonista una diva del cinema francese: Binoche è sempre Binoche, punto e basta. Impossibile essere una vera lavoratrice delle pulizie. Carrère gira il dito nella piaga del contemporaneo, nell’epoca dello storytelling, tirando il filo di come raccontare i più deboli. Intendiamoci: il libro ha svolto la sua fondamentale funzione di denuncia, portando le stesse aziende di ferryboat a interrogarsi sulle condizioni di lavoro, e responsabilizzando i viaggiatori a lasciare le navi in stato decente per rispetto delle donne. Ma comunque, sembra dire il film, quando denunciamo lo sfruttamento lo facciamo sempre dalla nostra condizione privilegiata.

Infine c'è la serie Scissione. Parliamo della nuova serie creata da Dan Erickson e diretta tra gli altri da Ben Stiller, distribuita per la prima stagione su Apple Tv. Il racconto è incentrato sulla Lumon Industries: un'azienda che esercita una procedura medica di "scissione" nei confronti dei suoi dipendenti. In breve, questa tecnica separa i ricordi esterni della vita da quelli interni registrati sul luogo di lavoro. Uno dei dipendenti, Mark, si metterà alla guida di una squadra di impiegati alla ricerca della verità, di una spiegazione, di perché il ricordo dell'impiego viene separato dal tempo della vita. Non si può davvero dire oltre per non guastare la sorpresa, il piacere dell'affabulazione e dello svelamento graduale. Basti questo: Scissione è un'operazione che guarda al lavoro di oggi uscendo dalla rappresentazione testuale, respingendo ogni forma di realismo (che non è obbligatorio) e trovando la sua forza giocando proprio su un altro terreno, quello della metafora.

Leggi anche

Culture

Riff-Raff di Ken Loach, trent'anni di un classico

Al Festival di Cannes 1991 veniva presentato uno dei film più potenti del regista britannico: la storia di un gruppo di operai in un cantiere di Londra, tra bassi salari e nessuna sicurezza
Riff-Raff di Ken Loach, trent'anni di un classico
Riff-Raff di Ken Loach, trent'anni di un classico