“Scompare con Italo Calvino uno dei più grandi scrittori italiani del nostro tempo - sarà il tributo che quel Pci con il quale ebbe un rapporto di amore conflittuale durato un’intera esistenza gli dedicherà attraverso le parole di Alessandro Natta - La sua straordinaria fantasia di narratore, la ricchezza umana e morale della sua opera letteraria hanno fatto di lui uno degli autori più amati da tutte le generazioni di lettori. Lo vogliamo ricordare anche per la sua costante presenza di intervento sul temi delle libertà politiche e civili, per l’acutezza critica del suol giudizi. Italo Calvino appartiene alla generazione della Resistenza. Combattente valoroso in una formazione delle Brigate Garibaldi nella guerra di Liberazione, ha animato della coscienza dei valori di solidarietà, di giustizia sociale, di libertà, tutti i suoi scritti, fin dal primo romanzo partigiano e in innumerevoli racconti e prose del fervido periodo del dopoguerra. I comunisti italiani non dimenticano il contributo che Italo Calvino ha dato con la sua penna e il suo concreto impegno di militante alle grandi battaglie della classe operaia italiana, alla difesa della democrazia nel nostro paese (...) certi che la memoria del (...) caro scomparso rimarrà viva nella cultura italiana e universale, tra i giovani, in tutti coloro che aspirano a un mondo giusto e libero”.

“Calvino è morto tre settimane prima del suo sessantaduesimo compleanno; e l’Italia mise il lutto, come se fosse morto un amato principe - scriverà Gore Vidal in un saggio pubblicato sul The New York Reviwe of Books il 21 novembre 1985 - (…) L’Europa considerava la morte di Calvino come una calamità per la cultura. Un critico letterario, contrapposto a teorico, scrisse a lungo su Le Monde, mentre in Italia, ogni giorno per due settimane, furono pubblicati i bollettini dell'ospedale di Siena, e all'improvviso l'intera nazione era unita nella sua stima non solo per un grande scrittore ma per qualcuno che raggiungeva non soltanto gli scolari delle scuole elementari attraverso le sue collezioni di racconti popolari e favole, ma anche, una volta o l’altra, tutti coloro che leggono”.

Tracciare una biografia di Calvino non è un’operazione semplice.

“Dati biografici. - dirà lui stesso - Io sono ancora di quelli che credono, con Croce, che di un autore contano solo le opere. (Quando contano, naturalmente.) Perciò dati biografici non ne do, o li do falsi, o comunque cerco sempre di cambiarli da una volta all’altra. Mi chieda pure quello che vuol sapere e Glielo dirò. Ma non Le dirò mai la verità, di questo può star sicura”.

Di certo si sa che il piccolo Italo trascorre i primi tre anni della sua vita a Cuba. “Della mia nascita d’oltremare - racconterà - conservo solo un complicato dato anagrafico (che nelle brevi note bio-bibliografiche sostituisco con quello più ‘vero': nato a Sanremo), un certo bagaglio di memorie familiari, e il nome di battesimo che mia madre, prevedendo di farmi crescere in terra straniera, volle darmi perché non scordassi la patria degli avi, e che invece in patria suonava bellicosamente nazionalista (...) Sono cresciuto in una cittadina che era piuttosto diversa dal resto dell’Italia, ai tempi in cui ero bambino: Sanremo, a quel tempo ancora popolata di vecchi inglesi, granduchi russi, gente eccentrica e cosmopolita. E la mia famiglia era piuttosto insolita sia per Sanremo sia per l’Italia d’allora: scienziati, adoratori della natura, liberi pensatori (...) Mio padre, di famiglia mazziniana repubblicana anticlericale massonica, era stato in gioventù anarchico kropotkiniano e poi socialista (...)  mia madre (...) di famiglia laica, era cresciuta nella religione del dovere civile e della scienza, socialista interventista nel ’15 ma con una tenace fede pacifista”.

L’8 settembre 1943 comincia per l’Italia la Resistenza al nazifascismo iniziando per il nostro paese la ricostruzione democratica che la condurrà il 25 aprile del 1945 alla Liberazione. In una lettera all’amico Scalfari scriveva Calvino (‘Santiago’, dal nome del paesino cubano dove era nato 20 anni prima) nel luglio di quell’anno: “La mia vita in quest’ultimo anno è stato un susseguirsi di peripezie (…) sono passato attraverso una inenarrabile serie di pericoli e di disagi; ho conosciuto la galera e la fuga, sono stato più volte sull’orlo della morte. Ma sono contento di tutto quello che ho fatto, del capitale di esperienze che ho accumulato, anzi avrei voluto fare di più”.

Dopo la Liberazione il giovane Italo aderisce al Partito comunista italiano divenendone attivista e quadro (lascerà il partito dopo i fatti di Budapest del 1956). “La mia scelta del comunismo - dirà anni dopo in una intervista - non fu affatto sostenuta da motivazioni ideologiche. Sentivo la necessità di partire da una ‘tabula rasa’ e perciò mi ero definito anarchico (…). Ma (…) sentivo che in quel momento quello che contava era l’azione; e i comunisti erano la forza più attiva e organizzata”.

Nel 1951 visita l’Unione Sovietica, dandone puntuale resoconto nel Taccuino di viaggio in Urss, con cui vince il premio Saint Vincent. Scrive intanto il romanzo I giovani del Po e, quasi di getto, Il visconte dimezzato.

Tra il 1958 ed il 1962 lo scrittore pubblica La gallina di reparto, La nuvola di smog e l’antologia I racconti. Nel 1959 dà alle stampe Il cavaliere inesistente e parte per un viaggio di sei mesi nelle principali località degli Stati Uniti grazie ad un finanziamento della Ford Foundation, esperienza che diverrà soggetto del racconto inedito Un ottimista in America.

Nell’estate del 1967 si trasferisce a Parigi. Qui apprende della morte del suo amico Che Guevara, ucciso in Bolivia il 9 ottobre. Nemmeno una settimana più tardi, il 15 ottobre, scrive un articolo a lui dedicato pubblicato in spagnolo nel gennaio 1968 sulla rivista cubana Casa de las Americas. Il testo originale integrale in italiano sarà pubblicato solamente trent’anni dopo, nel 1998.

“Qualsiasi cosa cerchi di scrivere per esprimere la mia ammirazione per Ernesto Che Guevara, per come visse e per come morì, mi pare fuori tono - scriverà - Sento la sua risata che mi risponde, piena d’ironia e di commiserazione. Io sono qui, seduto nel mio studio, tra i miei libri, nella finta pace e finta prosperità dell’Europa, dedico un breve intervallo del mio lavoro a scrivere, senza alcun rischio, d’un uomo che ha voluto assumersi tutti i rischi, che non ha accettato la finzione d’una pace provvisoria, un uomo che chiedeva a sé e agli altri il massimo spirito di sacrificio, convinto che ogni risparmio di sacrifici oggi si pagherà domani con una somma di sacrifici ancor maggiori. Guevara è per noi questo richiamo alla gravità assoluta di tutto ciò che riguarda la rivoluzione e l’avvenire del mondo, questa critica radicale a ogni gesto che serva soltanto a mettere a posto le nostre coscienze. In questo senso egli resterà al centro delle nostre discussioni e dei nostri pensieri, così ieri da vivo come oggi da morto. È una presenza che non chiede a noi né consensi superficiali né atti di omaggio formali; essi equivarrebbero a misconoscere, a minimizzare l’estremo rigore della sua lezione. La “linea del Che” esige molto dagli uomini; esige molto sia come metodo di lotta sia come prospettiva della società che deve nascere dalla lotta. Di fronte a tanta coerenza e coraggio nel portare alle ultime conseguenze un pensiero e una vita, mostriamoci innanzitutto modesti e sinceri, coscienti di quello che la “linea del Che” vuol dire - una trasformazione radicale non solo della società ma della “natura umana”, a cominciare da noi stessi - e coscienti di che cosa ci separa dal metterla in pratica. La discussione di Guevara con tutti quelli che lo avvicinarono, la lunga discussione che per la sua non lunga vita (discussione-azione, discussione senz’abbandonare mai il fucile), non sarà interrotta dalla morte, continuerà ad allargarsi. Anche per un interlocutore occasionale e sconosciuto (come potevo esser io, in un gruppo d’invitati, un pomeriggio del 1964, nel suo ufficio del Ministero dell’Industria) il suo incontro non poteva restare un episodio marginale. Le discussioni che contano sono quelle che che continuano poi silenziosamente, nel pensiero. Nella mia mente la discussione col Che è continuata per tutti questi anni, e più il tempo passava più lui aveva ragione. Anche adesso, morendo nel mettere in moto una lotta che non si fermerà, egli continua ad avere sempre ragione”.

“Il problema è capirsi. Oppure nessuno può capire nessuno: ogni merlo crede d’aver messo nel fischio un significato fondamentale per lui, ma che solo lui intende; l’altro gli ribatte qualcosa che non ha relazione con quello che lui ha detto; è un dialogo tra sordi, una conversazione senza né capo né coda. Ma i dialoghi umani sono forse qualcosa di diverso?”