La notizia della scomparsa di Bruno Ugolini, nostro amico e grande giornalista, un uomo che ha dedicato la maggior parte della sua lunga esperienza professionale al lavoro - anzi ai lavoratori e al loro modo di organizzarsi con il sindacato - arriva nelle stesse ore della notizia della morte Laila El Harim, l’operaia di 40 anni, originaria del Marocco e dipendente solo da due mesi dell’azienda di packaging Bombonette di Camposanto (Modena). L’avrebbe notata, Bruno, questa coincidenza e avrebbe sicuramente scritto di questa ennesima tragedia del lavoro, un’altra donna, dopo Luana D’Orazio, morta schiacciata da un orditoio. A queste storie Bruno aveva dedicato la sua attenzione, insieme alla precarizzazione delle varie forme del lavoro, che considerava l’esito peggiore della trasformazione sociale ed economica degli ultimi venti anni. Un cambiamento profondo all’insegna dell’interesse, del puro guadagno dell’impresa, della velocità dei gesti in fabbrica, di un’organizzazione del lavoro che pretende di fare a meno dei diritti e del rispetto delle persone e perfino della vita.

A questa deriva Ugolini ha cercato di opporsi costantemente con il suo lavoro di cronista meticoloso e di analista acuto delle trasformazioni. Lo faceva cercando ogni volta di andare oltre la cronaca, così come ci si presenta ogni giorno, utilizzando strumenti di interpretazione raffinati e allo stesso tempo raccontando le storie delle donne e degli uomini che sono costretti al lavorare per vivere. Ne ha parlato per tanti anni sul suo quotidiano l’Unità con una rubrica che dal 2001 al 2015, ogni lunedì, ci proponeva storie di lavoratrici e lavoratori precari, centinaia di puntate da cui è nato il libro edito dalla casa editrice della Cgil, Ediesse, Vite ballerine. Prima e dopo il Jobs Act” . Come colleghi del “sindacale” e come redattori di Rassegna Sindacale e di RadioArticolo1 abbiamo cercato in tante occasioni di “sfruttare” il suo lavoro, la sua esperienza e i suoi racconti. Bruno non si è mai tirato indietro, neppure negli ultimi anni quando ha dovuto combattere contro la sua malattia. E’ sempre stato contento di essere interpellato e di partecipare magari in diretta alle trasmissioni della radio, ai giornali radio da “esperto” o di intervenire ai convegni e alle iniziative pubbliche del sindacato. Ricordo tante occasioni in cui ci siamo detti, “sentiamo Bruno”, che avrà da dire su questo fatto? E ricordo le volte in cui mi chiamava per commentare il “Mattinale” Cgil (di cui era un lettore assiduo) o di chiedere informazioni per approfondire le notizie del momento che riguardavano in particolare la Cgil. Domande che ci rivolgeva, ma anche tante opinioni, giudizi e suggerimenti che ci proponeva.

Le risposte di Bruno alle nostre di domande sono infatti sempre arrivate puntuali e non scontate. Piccoli tentativi di capire di più della grande storia complessa del lavoro. Ci colpiva la sua capacità di andare a pescare quel particolare apparentemente insignificante, ma decisivo poi per capire la reale dinamica dei fatti. Come negli “incidenti” sul lavoro, quelle storie di morti che sembrano inverosimili nell’epoca contemporanea,ma che si ripropongono puntuali e inesorabili. Per Bruno era anche inconcepibile soprattutto la compressione dei diritti. Era stato amico di Bruno Trentin, il leader della Fiom e della Cgil che ha dedicato gli anni della sua direzione proprio ai diritti e all’organizzazione dei lavoratori, a partire dai mitici Consigli di fabbrica. E con Trentin aveva stretto un sodalizio profondo, di collaborazione e stima. E’ stata ricordata in queste ore la famosa intervista di Ugolini a Trentin dopo la rottura del 1992, quando il segretario generale della Cgil si dimise dopo la firma dell’accordo sul salario. Un mondo, quello di oggi, che per Bruno era diventato paradossalmente incomprensibile vista la sua formazione e la sua fiducia quasi infantile nella possibilità di cambiare le cose, opponendosi allo sfruttamento.

Lo dice chiaramente in un articolo che ripubblichiamo su Collettiva. 

“È sembrato utile, per me – scriveva nel 2016 - ritornare su questi dieci anni e sugli epiloghi possibili. Rappresentano, quegli anni, una realtà viva e violenta. Non cancellata. Che non è esplosa come è avvenuto in altre stagioni del passato. Quando quello che chiamavano l’operaio-massa, approdato dal Sud a Torino o Milano, decideva di alzare la testa, di ribellarsi. Oggi i giovani protagonisti di questo libro sembrano abbandonarsi a una quieta attesa. Sono chiamati Neet, acronimo inglese: not in education, employment or training. Ovvero, non studiano e non lavorano. Secondo un recente studio dell’Università Cattolica di Milano sono 2,4 milioni di giovani. Un dato che ha fatto dire al demografo Alessandro Rosina: “Un livello allarmante, mai raggiunto nella storia”.


Ma ovviamente non si tratta solo di Neet.

“Anche i giovani che riusciranno a entrare, tramite le sovvenzioni alle imprese previste dal Jobs Act, in luoghi di lavoro – prosegue Bruno -  lo faranno con sopra la testa una spada di Damocle. Ovvero, la paura di perdere quel “posto” prezioso, dopo i tre anni, perché licenziati senza possibilità di reintegro anche per futili motivi. Magari perché osano contestare ritmi insostenibili, ambienti nocivi, attacchi all’integrità psicofisica, controlli sui loro telefonini o i loro tablet. Magari perché osano avvicinare il sindacato, organizzare i propri compagni. Una paura, una dose sedativa destinata a permeare nel tempo, via via che le nuove assunzioni sostituiranno la vecchia manodopera, l’intero mondo del lavoro privato di diritti essenziali. Anche per questo acquista un grande valore la Carta dei diritti universali del lavoro voluta dalla Cgil. Una proposta, una leva per il possibile cambiamento”.


Per noi Bruno Ugolini era semplicemente questo: un cronista senior, un veterano di una professione bellissima e privilegiata. Un uomo che non ha mai smesso di essere ragazzo e di credere nell’emancipazione.

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