Raccontare di Leonardo Sciascia e della sua inaspettata semplicità, ancora oggi mi provoca emozione. Ho avuto la fortuna di incontrarlo e di parlare con lui a Corleone il 12 giugno 1976. Era un sabato e mancava poco più di una settimana alle elezioni politiche del 20 giugno, quando per poco il Pci non riuscì ad effettuare il sorpasso sulla Dc. Sciascia venne nel paese allora considerato di Liggio per fare un comizio a sostegno del Pci e del suo amico Renato Guttuso, candidato nel collegio senatoriale di Corleone, che era con lui. Ma lo scrittore conosceva la storia e sapeva che Corleone era anche la patria di Bernardino Verro, di Placido Rizzotto e del movimento contadino, che si erano battuti con grande coraggio contro gli agrari e la mafia. 

Quel pomeriggio avere insieme Sciascia e Guttuso a Corleone fu un evento importante che entusiasmò noi comunisti e incuriosì tanti cittadini che vennero ad assistere alla manifestazione. Con grande semplicità proprio Sciascia chiese a me e ad altri compagni di fare una passeggiata sul corso principale del paese, in attesa che si avvicinasse l’ora del comizio. Per me, per noi, Sciascia era il coraggioso intellettuale che per primo aveva scritto pagine magistrali contro la mafia, capace di farsi leggere anche in Italia e all’estero. A cominciare dal bellissimo romanzo Il giorno della civetta, diventato poi un film-evento con la regia di Damiano Damiani. Da noi giovani a Corleone Sciascia era visto come un modello per provare a liberarci dalla mafia e dalla subcultura mafiosa molto radicata nei comportamenti della società siciliana. 

Percorrendo corso Francesco Bentivegna, dissi allo scrittore che la via era dedicata all’eroe del risorgimento corleonese, moschettato a Mezzojuso dai Borboni nel 1856. E Sciascia mostrò di conoscere questo pezzo della nostra storia. Gli ricordai che qualche anno prima aveva stupito noi studenti del liceo che l’avevamo intervistato per il giornalino d’istituto (un ciclostilato prodotto in maniera artigianale) chiedendogli “cosa ne pensasse della mafia”. Laconica la sua risposta: “Tutto il male possibile, naturalmente”. E poi aveva aggiunto un post scriptum: “Ragazzi, un’intervista ha senso quando si porta l’intervistato a dire cose nuove che non ha mai detto. Io alla vostra domanda ho risposto migliaia di volte, per questo ho usato queste poche parole”.

Fu la lezione di giornalismo del “maestro” Sciascia, che negli anni ci è sempre tornata utile. Poi gli avevamo chiesto anche: “Cosa possono fare i giovani per combattere la mafia?”. E lui: “Tutto, purché restino giovani”. E spiegò: ”Purché non accettino i compromessi morali e non aspettino la rivoluzione mondiale, perché la rivoluzione non verrà, mentre saranno le piccole azioni quotidiane a fare avanzare un modello di società nuovo”.  

Sciascia ricordava quell’intervista (io una copia di quel giornalino la conservo ancora come una “reliquia”) e ci ribadì gli stessi concetti: cioè l’auspicio che i giovani potessero cambiare la Sicilia, anche se il suo lucido pessimismo non gli consentiva molte illusioni. Infatti, ci parlò della “linea della palma”, che non conoscevamo. “A causa del riscaldamento del pianeta la linea di crescita delle palme sale verso il nord di un centinaio di metri all’anno. Per questo, fra alcuni anni, vedremo nascere le palme anche dove oggi non esistono”. Allora noi non capimmo (e con noi tanta parte dell’opinione pubblica) l’accostamento palma-mafia. “Anche la linea della mafia sale ogni anno. E si dirige verso l’Italia del nord. Tra un po’ di anni la vedremo trionfare in posti che oggi  sembrano al riparo da qualsiasi rischio”, spiegò con la forza della profezia.

Ancora non aveva scritto per il Corriere della sera quell’articolo-saggio sui professionisti dell’antimafia che avrebbe provocato tante feroci polemiche. Ma quanto intuito profetico in quelle righe! Depurato dall’errore madornale (di cui presto si sarebbe scusato) sul giudice Paolo Borsellino, in questi anni (e ancora di più negli ultimissimi anni) non è accaduto proprio quello che temeva e denunciava Sciascia? Le carriere all’ombra dell’antimafia o (addirittura e peggio) l’antimafia della mafia!

La passeggiata con Leonardo Sciascia si concluse con qualche considerazione critica sulla sua esperienza nel consiglio comunale di Palermo, dove era stato eletto l’anno precedente, nel 1975, come indipendente nelle liste del Pci. “È assurdo che le sedute consiliari vengano convocate per una certa ora, mentre poi iniziano sempre con tre-quattro ore di ritardo”. Era il disagio di una persona che non riusciva a considerarsi un professionista della politica e che voleva continuare a mantenere uno sguardo critico sulla società e i suoi protagonisti. Bighellonare a Sala delle lapidi, o tra i divani delle salette adiacenti, non faceva per lui. Non a caso alcuni mesi dopo, nel gennaio 1977, rassegnò le dimissioni da consigliere comunale.

Non era un oratore Sciascia. Ancora lo vedo sul palchetto di tavole e di aste di ferro, montato qualche ora prima dai militanti della sezione, mentre spunta dalla tasca della giacca un foglietto con qualche appunto scritto con una grafia minuta, quasi illeggibile. Cominciò a parlare con voce flebile che si sentiva a malapena. Fece riferimento alla coscienza civile dei corleonesi e dei siciliani, poi passò la parola al suo amico Renato Guttuso che, col suo vocione roboante (e un po’ d’enfasi elettorale), invitò i siciliani a “salvare la Sicilia, a votare comunista”. Poi tutti insieme andammo in sezione, dove il grande pittore di Bagheria in un attimo realizzò il disegno di una mano che teneva un garofano rosso, con la dedica alla sezione Pci di Corleone. 

(Dino Paternostro è il responsabile del dipartimento legalità della Cgil di Palermo)