La copertina dell’ultimo numero del “New Yorker”, a opera dell’artista Adrian Tomine, raffigura una donna seduta con lo sguardo neutro davanti lo schermo di un pc sorretto da una piccola pila di libri, il drink in una mano e lo smartphone nascosto sotto al tavolo nell’altra. Capelli raccolti, ben truccata, orecchini a cerchio abbinati a una camicia bianca ultimo grido, ma poi in shorts e ciabattine, sul pavimento della sua stanza troviamo di tutto, dalle mascherine usate agli attrezzi per l’home-fitness, mentre i gatti banchettano sornioni con gli avanzi sparsi. Nel suo complesso, un’immagine recepita d’istinto come icona perfetta dei tempi che stiamo vivendo.

Se infatti il ripetuto adagio “niente sarà più come prima” avrà un senso dopo la pandemia che ancora avvolge l’intero pianeta, in questo 2020 di certo è già divenuto certezza e ha un suo specifico significato nel mondo del lavoro, impegnato nel cogliere le inevitabili trasformazioni in atto. Da qui l’importanza di analizzare e comprendere il nostro quotidiano e il più immediato futuro, cercando dì coniugare i nuovi scenari con l’avanzare impetuoso della tecnologia, l’emergenza ambientale, i diritti di chi lavora.

Sono questi i macrotemi affrontati da Nicola Zamperini, giornalista professionista e consulente di comunicazione digitale, già nel 2018 autore di un illuminante Manuale di disobbedienza digitale per Castelvecchi, editore anche di questo libro dal titolo Lavorare (da casa) stanca. Rischi e opportunità dello smart working (pp. 91, € 12,50). In realtà sin dalle prime pagine viene spiegato come, per uno studio efficace del fenomeno, in luogo della definizione di smart working sia più corretto utilizzare quella di remote working, niente altro che una rivisitazione in lingua inglese del nostro concetto di telelavoro. Cos’è allora il remote working, anzi meglio, chi è il remote worker? Quasi seguisse i contorni della copertina citata, Zamperini lo descrive così:

“Il remote worker, nel corso della sua lunga e immobile giornata lavorativa, ha parlato, ha ascoltato; oppure ha cercato di parlare e ascoltare, indipendentemente dalla qualità della connessione: non è facile chiedere la parola attraverso un computer. Bisogna farsi sentire prima di tutto dal microfono per avere voce. Se il microfono coglie le sue parole, allora il lavoratore apparirà in video ai suoi colleghi: la tecnologia decide se chi ha parlato merita il diritto di tribuna e quello di comparire in primo piano”.

La tecnologia dunque è la protagonista di questa nuova dimensione professionale, e in molti stiamo sperimentando questa condizione; ma tutto questo produce una mutazione inevitabile nella qualità dei rapporti tra le persone, e tra le persone stesse e la propria occupazione. Una trasformazione che in Italia, secondo la fotografia realizzata dall’Istat in questi mesi, ha coinvolto circa 8,2 milioni di lavoratori, pari al 35,7%, al netto dei cosiddetti “essenziali” che non possono abbandonare la propria sede. E se è la tecnologia a farla da padrone, i padroni di questo secolo al momento non possono che essere identificati nei responsabili delle grandi techno-corporation, titolari di un dominio talmente esteso sullo spazio e sul tempo digitale da tramutarsi per moltissimi utenti nella totale rappresentazione dell’universo del web. E questi colossi si stanno organizzando, se non sono già organizzati.

Negli Stati Uniti la nuova realtà del remote working si è imposta in brevissimo tempo anche nel tempio apparentemente inaccessibile della Silicon Valley, spazzando via quelle che sembravano le convinzioni granitiche di una cultura aziendale lungi dall’essere scalfita; e sulla stessa lunghezza d’onda navigano altri giganti economici del secolo ventunesimo, da Google a Twitter, da Facebook sino a Microsoft, secondo la quale una rivoluzione del lavoro di tale proporzione, seppur potenzialmente in grado di offrire opportunità professionali diverse, porterà già nel 2021 a toccare un aumento di 250 milioni di disoccupati su scala globale, colpendo in particolare persone con un basso livello di istruzione, di colore, di sesso femminile, o afflitte da disabilità. Ma oltre la pandemia, l’azienda di Bill Gates individua come cause la rapida comparsa di tecnologie basate sull’intelligenza artificiale, una sempre maggior competizione richiesta nelle conoscenze tecnologiche, unite all’abbandono degli investimenti in formazione da parte delle imprese, soprattutto negli ultimi due decenni. Il report di Microsoft si chiude con la previsione di una “economia ibrida”, in cui alcuni lavorano da casa e altri dalla consueta postazione, destinata a durare a lungo.

Come muoversi, come sopravvivere a un rivolgimento di tale portata, per non subirne il ruolo (ancora una volta) di vittime sacrificali? Il merito del libro di Zamperini è anche quello di fornire nelle sue conclusioni dieci precise proposte, che intervengono sia nello specifico (mettere a disposizione i dati delle piattaforme di videoconferenza, l’obbligo per tutti di mantenere aperta la webcam ma su uno sfondo virtuale, il tempo massimo da stabilire per le videoriunioni), sia riflettendo sui cambiamenti già in corso rispetto all’individuo e l’ambiente, dal bisogno di supporto psicologico per il rischio di un eccessivo isolamento alla riconversione del piccolo commercio e la riqualificazione di quelle zone urbane sinora tenute ai margini, attraverso la costituzione di luoghi di coworking, con particolare sguardo verso le periferie delle città e il Mezzogiorno d’Italia, metonimia di qualsiasi Sud del mondo.    

La soluzione ottimale potrebbe essere riuscire a creare un modello (europeo?) di remote working, rivolto alla sostenibilità ambientale e alle esigenze dei lavoratori: consapevoli, oggi ancor di più, che “il senso di una comunità coesa intorno ai modi differenti di lavorare si costruisce soltanto se si restituisce il senso di questi differenti modi di lavorare come orientati al bene comune, alla difesa di interessi comuni”.

Il tempo stringe.