Nel prologo a Dollari e no. Gli Stati Uniti dopo la fine del secolo americano (DeriveApprodi, pp. 224, € 18), l’autore Bruno Cartosio, uno tra i maggiori storici italiani degli Stati Uniti, ci fornisce subito dati chiari e inequivocabili: “Tra il 1998 e il 2015 gli stabilimenti manifatturieri negli Stati Uniti sono passati da 366.249 a 292.825; soprattutto, il numero delle fabbriche con più di 1.000 dipendenti si è quasi dimezzato (da 1504 a 863) e quello delle fabbriche con 500-999 dipendenti si è ridotto di un terzo (da 3322 a 2072). A sua volta il numero dei posti di lavoro nel settore manifatturiero è passato da 18.640.000 alla fine del 1980 a 17.449.000 nel dicembre 1998, a 12.809.000 nel dicembre 2018, mentre la popolazione passava da poco più di 227 milioni nel 1980 a quasi 276 milioni nel 1998 e a 327 milioni nel 2018”. Il laconico commento a seguire ne deduce che, se la seconda rivoluzione industriale aveva creato le grandi città statunitensi, la terza le ha distrutte.

Qualche dato e pochi cenni per introdurre i contenuti di un libro essenziale quanto può esserlo uno studio sociale ed economico sulla più grande potenza mondiale, analizzando quelle che sono le sue storture, le disarticolazioni accumulate nel corso dei decenni, ricordando che degli ultimi nove presidenti americani sei sono stati repubblicani e tre democratici, in attesa di conoscere l’esito della consultazione di martedì tre novembre, l’election day che decreterà la vittoria tra i contendenti dei due schieramenti politici statunitensi, Donald Trump e Joe Biden.

La competenza di Cartosio in materia permette di accompagnare il lettore in un “paesaggio del futuribile”, utile però non soltanto a comprendere quanto accadrà, o potrebbe accadere, ma anche a farci capire come si è arrivati a questo punto, vale a dire quello di un paese a rischio di una forte erosione democratica, tanto che lo stesso candidato Biden, in una recente intervista, ha confessato la sua paradossale “massima preoccupazione” in caso di vittoria su Trump, che potrebbe non riconoscere la sconfitta, rifiutandosi di lasciare la presidenza.

Il cuore del volume si concentra infatti sulle contraddizioni e la crisi della democrazia statunitense, e su quelle che sono state le sue radici (capitoli 4 e 5), recuperando alcuni passaggi fondamentali di un classico per eccellenza, Alexis de Tocqueville, sino a condurci in quello che per l’appunto viene definito il secolo americano, lasciato alle spalle da vent’anni, che nello scorrere del suo tempo ha visto infittirsi lo scarto decisivo tra ciò che il politologo Roberth Alan Dahl nel 1972 definiva “democrazia ideale”, in contrapposizione alla “democrazia reale” divenuta sempre meno sinonimo di libertà, individuali e collettive.

L’undici settembre 2001 rimane così uno spartiacque inevitabile, e il nuovo secolo sembra mostrare tutte le conseguenze di questo percorso troppo spesso in aperta antitesi con i princìpi sbandierati con orgoglio in ogni angolo del mondo salvo poi smentirsi dentro casa, non ultima la tragica vicenda di George Floyd, che sembra aver risvegliato ancora una volta lo spirito di un’altra libertà, una libertà promessa e basta, una promessa mai mantenuta.

D’altra parte, dopo la crisi economica partita proprio nei dintorni di Wall Street, dalla quale ancora nessuno riesce a tirarsi completamente fuori, il risultato è stato un ulteriore arricchimento dei ricchi, e dunque un ulteriore impoverimento dei poveri, esito nefasto quanto scontato di ciò che in esergo Warren Buffet, ben piazzato nella top five dei magnati planetari, nel 2011 già riassumeva disinvoltamente così: “Di fatto, c’è stata la guerra di classe negli ultimi vent’anni, e la mia classe ha vinto... Quindi, ammessa la guerra di classe, i ricchi hanno vinto”.

I ricchi hanno vinto, dunque; e le disuguaglianze, come ben articolato nei capitoli che precedono l’epilogo dedicato alla crescita e al declino delle città industriali, aumentano dappertutto nel mondo, non solo negli Stati Uniti d’America. Si tratta della Nuova Crisi Urbana, che per essere risolta dovrà attendere nuove strategie in tema di società ed economia. E di un presidente diverso da Donald Trump.