Ex ministro dell’Ambiente, oggi presidente della Fondazione Sviluppo sostenibile e dell’iniziativa Italy for Climate, Edo Ronchi è un fermo sostenitore della transizione ecologica e della necessità di accelerare la decarbonizzazione. Lo abbiamo incontrato dopo la Cop 26 di Glasgow, la Conferenza dell'Onu sui cambiamenti climatici che quest'anno si è tenuta in Scozia,  per chiedergli come è andata.

Quali sono i risultati della Cop 26?
L’obiettivo centrale della Cop di allineare gli impegni nazionali di riduzione (NDC) dei gas serra con la traiettoria dell’Accordo di Parigi, in particolare per mantenere il contenimento dell’aumento della temperatura media globale, rispetto all’era preindustriale, di 1,5°C, non è stato raggiunto. Secondo quanto scritto nel Patto di Glasgow per l’obiettivo di 1,5°C sarebbe necessario un taglio delle emissioni di CO2 del 2010 del 45% entro il 2030. Invece con gli impegni portati a Glasgow e non modificati si arriva al 2030 con un aumento delle emissioni del 13,7%. I risultati della Cop 26, insufficienti, sono stati soprattutto l’attenzione mondiale che ha richiamato sulla tematica climatica e la scelta dell’accelerazione dell’impegno di riduzione dei gas serra di un consistente gruppo di Paesi, con in testa l’Unione europea e gli Usa, e di una buona parte di imprese e di cittadini. Dopo 26 Conferenze dobbiamo prendere atto di un dato di fatto: per varie ragioni evidenti (assenza di strumenti di governance mondiale effettivi, altre priorità perseguite dalla nuova superpotenza cinese, governi fortemente legati agli enormi interessi economici che ruotano intorno ai combustibili fossili) le Cop non sono in grado di produrre soluzioni consistenti e rapide capaci di affrontare questa crisi climatica. Possono svolgere un ruolo ancora utile, ma complementare. Il ruolo decisivo non si gioca alle Cop, ma nel processo di transizione a un’economia decarbonizzata, guidato da un gruppo di Paesi e da un vasto sostegno di soggetti economici e sociali, tanto forte da poter costringere i ritardatari ad inseguire.   

È possibile che la transizione ecologica possa essere realizzata contemporaneamente ovunque, con tutti i Paesi del mondo coinvolti e impegnati alla stessa maniera?
La transizione ecologica e climatica è un cambiamento di vasta portata, un cambio di civiltà. Non mi pare possibile che avvenga contemporaneamente ovunque, con gli stessi tempi e le stesse modalità. Si parla molto dei ritardi nelle politiche climatiche di due grandi Paesi, Cina e India, accostando, erroneamente a mio parere, due Paesi molto diversi. La Cina è ormai una superpotenza economica che, con il 18,2% della popolazione mondiale, genera ben il 33% delle emissioni globali di CO2, con emissioni pro-capite (8 tonnellate) superiori a quelle europee (5,5 tonnellate). l’India, con una popolazione di dimensione simile (17,8% di quella mondiale) emette solo il 6,7% delle emissioni globali, pari a un quinto di quelle cinesi, consuma un quarto dell’energia e un quinto del carbone della Cina. Mentre la Cina dovrebbe rapidamente mettersi sulla rotta della riduzione dei Paesi sviluppati, l’India dovrebbe poter godere di una maggiore flessibilità che ovviamente, siccome il budget di carbonio ormai disponibile è limitato, dovrebbero essere compensate da un maggiore impegno dei Paesi più avanzati o anche ricevere maggiori sostegni economici e trasferimenti tecnologici per la sua transizione climatica. Gli impatti di questa grande crisi, e i loro peggioramenti, colpiscono pesantemente anche la Cina e l’India. La neutralità climatica è una via obbligatoria anche per loro. Prima o poi, speriamo presto, dovranno inseguire misure climatiche incisive.

La crisi climatica è globale, ma ognuno deve fare la sua parte. Quale parte sta facendo l’Italia? E quale l’Europa?
L’Italia ha superato il target di riduzione del 20% al 2020, anche per la recessione causata dalla pandemia. Nel 2021 le emissioni sono di nuovo cresciute in modo consistente, di circa il 6% come il Pil. In parte la crescita, dopo il forte calo del 2020, per effetto del rimbalzo, era inevitabile. La misura di questo aumento è però troppo elevata: rivela una debolezza delle misure climatiche nazionali sia sul lato dell’efficienza energetica, sia dei tassi di crescita delle rinnovabili.  Di questo passo l’Italia non raggiungerebbe il nuovo e più impegnativo target europeo di riduzione del 55% delle emissioni di gas serra al 2030. L’Europa ha approvato una “climate low” con lo strumento del Regolamento che introduce un target europeo legalmente vincolante di riduzione delle sue emissioni del 55% entro il 2030 e di neutralità climatica entro il 2050. La Commissione ha poi presentato “Fit for 55”, un pacchetto di misure per raggiungere questi target che sono in discussione col Parlamento e col Consiglio. Le proposte di partenza della Commissione sono migliorabili, ma complessivamente positive: incontrano parecchie resistenze di alcuni Paesi, speriamo che non ne risultino indebolite.

Secondo il Climate Change Performance Index l'Italia perde posizioni nella lotta alla crisi climatica: troppo lenta nello sviluppo delle rinnovabili. Che cosa è successo secondo lei?
Nel 2020 il consumo di energia da fonti rinnovabili è stato di 21,5 Mtep, 0,4 Mtep in meno del 2019: le rinnovabili termiche si sono fermate a 10,1 Mtep, meno di quelle del 2008; le rinnovabili nei trasporti sono ferme a 1,3 Mtep, le stesse del 2019 e meno di quelle del 2012. Le rinnovabili elettriche sono cresciute solo dell’1% e solo di un TWH e nel 2020 sono stati installati solo 800 MW di nuovi impianti a fonti rinnovabili. Per raggiungere il target europeo dovremmo installare almeno 7000 Mw all’anno. Come mai c’è questo rallentamento? Perché non viene attribuito un adeguato livello di priorità alla crescita delle rinnovabili nelle politiche di governo, perché manca un coinvolgimento attivo nell’aumento delle rinnovabili con target, incentivi e  sanzioni se non si raggiungono, per le Regioni e per i Comuni, perché non c’è una legge per la protezione del clima che renda legalmente vincolanti i target, perché le semplificazioni procedurali per le autorizzazioni alla realizzazioni degli impianti sono timide e non ancora adeguate al grande e urgente salto che dovremmo compiere in questo settore.    

Le politiche messe in campo in Italia e gli interventi previsti dal Pnrr sono in linea con l'accordo di Parigi e con i target europei?
Nel Pnrr sono finanziate numerose misure che concorrono alla riduzione delle emissioni di gas serra. Come le altre misure del Piano, anche quelle climatiche vanno attuate nei tempi relativamente stretti previsti a livello europeo. Per queste non è tempo di discussioni: occorre darsi da fare per realizzarle bene. Come è espressamente detto nel Pnrr queste misure vanno nella direzione dell’Accordo di Parigi e ai nuovi target europei, ma non raggiungono i nuovi target che non sono ancora stati formalmente recepiti in Italia con norme di legge, ma restano finalizzate a quelli del Pniec, il Pano nazionale integrato per l’energia e il clima del 2019 che è basato sui target  europei precedenti.

Ma all'Italia conviene investire sulla decarbonizzazione? E perché?
Come stiamo verificando con l’aumento delle temperature, dei periodi di siccità e delle alluvioni, l’Italia è pesantemente colpita dalla crisi climatica, con costi sociali ed economici molto alti: se non facciamo la nostra parte, contribuiamo ad aggravare e ad accelerare la crisi, invece di contribuire alla sua soluzione. Siccome siamo importatori di petrolio e gas , l’aumento dell’efficienza energetica e lo sviluppo delle energie rinnovabili contribuiscono a migliorare la nostra bilancia dei pagamenti, i costi delle rinnovabili sono ormai vantaggiosi rispetto a quelli dei fossili, la decarbonizzazione dei trasporti riduce anche l’inquinamento dell’aria nelle città, l’economia circolare che migliora l’efficienza e riduce i consumi di energia e le emissioni, è vantaggiosa per un’economia manifatturiera come la nostra. La transizione alla neutralità climatica è una grande occasione di innovazione in tutti i settori, promuove la ricerca di nuove soluzioni, investimenti in cambiamenti di processi e di prodotti, di beni e di servizi, applicazioni innovative della digitalizzazione: un miglioramento della qualità dello sviluppo e del benessere.  

Potremmo essere più competitivi e contribuire alla creazione di nuovi posti di lavoro?
Se saremo capaci di gestire bene questa transizione, sì: saremo più competitivi e creeremo nuovi posti di lavoro, prestando attenzione anche alle attività e ai lavori che dovranno essere limitati e riconvertiti: questa transizione, per essere efficace, oltre che raggiungere adeguati obiettivi ecologici, deve essere giusta, puntare a un benessere di migliore qualità e inclusivo.